Croce e la museruola

Croce e la museruola FOGLI DI BLOC-NOTES Croce e la museruola // IV 1 propongo di venire \\ IVA a Tor'"° P& le feste. A Torino ho sempre lavorato bene, e i suoi portici sono adattissimi per la meditazione peripatetica. Molti miei lavori sono stati mentalmente elaborati in quella ordinata passeggiata fra gente ordinata e operosa». Sono parole di Benedetto Croce, del 10 dicembre 1926, a Francesco Ruffini, il grande maestro di diritto ecclesiastico che tiene cattedra all'università di Torino e la terrà fino al novembre 1931 (quando, sessantottenne, si rifiuterà di giurare fedeltà al fascismo insieme col figlio Edoardo, appena trentenne). E' un amore, quello per Torino, di tipo risorgimentale, quasi desanctisiano (anche se per De Sanctis, esule dal regno di Napoli nel decennio 1850-60, quell'amore era stato così poco ricambiato da obbligarlo a chiedere un insegnamento di livello universitario, negatogli nel capoluogo piemontese, nella lontana e accigliata Zurigo). Ed è un amore che torna sempre in queste lettere inedite di Croce a Ruffini, spazianti fra il 1920 e la morte — nel 1934 —, che provengono dal fondo della figlia Nina ora scomparsa: una presenza indimenticabile per tutti i collaboratori del Mondo di Pannunzio, quasi un segno di quel paesaggio civile e morale. E che ospiterò integralmente nel prossimo fascicolo di settembre della Nuova Antologia, curate con «intelletto d'amore» da Francesco Margiotta Broglio, che già nel 1974 riprescntò ai lettori italiani le lezioni sulle Relazioni fra Chiesa e Stato. COMMOVENTE quell'amore per Torino, anche perché costantemente contrappuntato con quello per Napoli: quasi il gusto degli opposti. «A Napoli — scriverà Croce in quella stessa lettera — passeggio per quartieri popolari, fra Inibizione a grap,poÌQiili.,salami e cacio divalli, e le tavolate dì pesce, e la gente sebi a' mflìz'àntéh. Con finale presa in giro di Giovanni Bovio, che amava dire di Napoli e di se stesso: «La città della gaia ignoranza, dove passeggia il genio solitario». «Beato lui — commenta Croce — che almeno si ravvolgeva nel suo paludamen 10 di genio». TORINO in quegli anni è una città che tiene testa, con impavido coraggio intelletruale, al fascismo. Gobetti è morto da pochi mesi, ma l'eredità gobettiana non è dileguata (il Barelli -uscirà fino a tutto il 1928). I maestri di Gobetti — Solari, Einaudi, lo stesso Ruffini — insegnano ancora all'università. Ci sono i giovanissimi come Carlo Levi, Ginzburg, Mila, Pavese, Garosci che animano il dibattito civile e culturale. All'ateneo studiano uomini come Norberto Bobbio e Alessandro Galante Garrone, senza contare Alessandro Passcrin d'Entrèves, più vecchio di alcuni anni. E Croce esprime a Ruffini, 11 27 maggio 1928 (siamo ormai verso la stretta del regime autoritario che si accinge a diventare totalitario), la sua solidarietà per «quell'incidente di Torino» — così lo chiama prudenzialmente il filosofo della Critica — che ha visto gli attivisti del GUF inscenare una volgarissima gazzarra contro Ruffini, reo di essersi opposto in Senato alla nuova legge elertorale. (Lo srudioso piemontese era un difensore strenuo della proporzionale, aveva collaborato anche al numero speciale dedicato dalla Rivoluzione liberale all'argomento nel 1925). «Il tumulto non lo sfiorò /impure», racconta Galante Garrone. E poco tempo dopo, sulla cima del «pulpito» sacerdotale da cui amava tenere lezione, quasi come un pastore protestante, trovò una museruola, che qualcuno aveva deposto con intenzioni intimidatorie. Ed egli pronto si rivolse ai suoi allievi: «Ecco: qui un cane ha evidentemente dimenticato la sua museruola». CROCE consola Ruffini delle aggressioni fasciste, citandogli un «giornaletto di Bari» che riempie di contumelie entrambi. E cita qualche frase: «Vecchi, sdentati, tremolanti, con puzza di cadavere...». Don Benedetto — che la invmsècgg iettatura da buon abruzzesenapoletano la paventa — arriva a una precisa definizione in materia: «Non è il caso di fare scongiuri, perché qui lo scongiuro è sulla stessa inabilità dell'imprecazione. Il jettatore, per raggiungere l'effetto, deve augurare lunga vita. Almeno, così mi dice la teoria della iettatura, nella quale come napoletano sono istruito». E «istruito» era dire poco. EPPURE i rapporti fra i due, Croce e Ruffini, non erano sempre stati facili, né sul piano politico né su quello accademico. Filosofo e storico, l'uno; giurista, l'altro (e si sa cosa fosse «giurista» per Croce). Origini diverse, mondi diversi. Uno tutto professore, l'altro antiaccademico, esaltatore della ricerca libera fino a una punta di superiore dilettantismo, ostile alle gerarchie universitarie. Neanche precedenti politici in tutto convergenti: Croce neutralista, o quasi, e giolittiano nel '14-'15; Ruffini interventista appassionato, nominato senatore da Salandra, il «falso» luogotenente di Giolitti. E poi in materia di antifascismo, cioè di previsione esatta delle conseguenze devastanti della dittatura, Ruffini, non a caso maestro di Gobetti (ma poi riconoscerà subito dopo la morte, nel febbraio 1926: «Sembra ormai che il maestro sia lui»), poteva ben dire di avere sopravanzato Croce. Ancora il 26 giugno 1924, sedici giorni dopo la scompar sa di Matteotti, Croce sottoscriverà, a differenza del cattedratico torinese, l'ordine del giorno in Senato a favore del governo, aggiungendovi quella intervista al Giornale d'Italia in cui si sottolineava che il fascismo «aveva risposto a seri bisogni» e fatto «molto di buono», e che quindi nello spirito pubblico era il desiderio di «non lasciar perdere i benefici del fascismo e di non tornare alia fiacchezza e all'inconcludenza che l'avevano preceduto». NEL 1925 le parti si rovesciano. E questo carteggio ne" dà la pròva, ùoce ha scritto il «manifesto degli intellettuali antifascisti»; Ruffini lo ha firmato, anche se con qualche riserva sullo stile. Ma ùoce apprende in quei giorni che Ruffini è stato inserito da Gentile nel cast dell' Enciclopedia, insieme con Einaudi. Disappunto per Croce, che non manca di sfogarsi con Amendola. Qualche puntura di spillo: si dovevano «evitare certi contatti». Ma il carteggio ci riporta indietro. Nel 1916 le parti, sul caso Gentile, erano ancora invertite. Croce tempesta Ruffi¬ ni, che è ministro della Pubblica Istruzione nel governo Boselli, perché imponga d'autorità Giovanni Gentile all'università di Napoli, dove le camorre accademiche resistono. E di fronte alle perplessità regolamentari del titolare della Minerva, Croce esplode: «E' professore anche lui». Quelli che hanno conosciuto Croce sanno quanto quel termine fosse dispregiativo sulla sua bocca. LI riunì, Croce e Ruffini, il Concordato del febbraio 1929. Entrambi votarono contro la ratifica dei patti lateranensi in Senato: mentre l'ex presidente del Consiglio di unità nazionale, cioè Paolo Boselli, si vanterà di votare a favore, l'unico che come deputato di Savona era superstite del voto del 1871 per la legge delle Guarentigie. Ruffini è tutto Guarentigie e niente Concordato. E' per il separatismo liberale e per la formula cavouriana. Non crede al giurisdizionalismo con vene giacobine, ma esclude ogni diritto d'interferenza del lo Stato circa sacra. Manda a Croce un suo opu scolo sullo Stato della Città del Vaticano: proprio la profanazione più pungente per i vecchi liberali. E Croce gli risponde il 13 agosto 1931, con una nota, una volta di più, di sospetto e di scetticismo verso i giuristi. «Speriamo che i giuri sti non avranno in avvenire la materia per continuarvi le loro costruzioni del singolare Stato; e che quella che sola interesserà sarà la questione storica che tu illustri». E intanto lo ringraziava delle memorie sul gian senismo. IL 31 marzo 1934 ai funerali di Ruffini, «uomo dell'antico Piemonte», nel cimitero di Borgofranco di Ivrea, c'era rutta {'«Italia civile» di quei decenni. C'era Croce, c'era Al bertini, c'era Einaudi, c'era Soleri, c'era Salvatorelli, c'era Solari. <d superstiti si contano» dirà uno dei. più fedeli allievi di Ruffini, Jemolo. «A qualcuno viene in mente — è ancora Jemolo a notarlo — il funerale del conte di Chambord, la bandiera del legittimismo rinchiusa con luì nella cripta; non sono questi gli ultimi liberali?». Ma Croce aveva già risposto no nel necrologio, scritto lo stesso giorno, per la Critica. L'amicizia è immortale, e immortale la tolleranza. A conferma che «quel che davvero unisce gli esseri umani è qualcosa di più profondo che non il cosiddetto consenso nelle idee: è il consenso nel sentimento verso la vita vissuta». Giovanni Spadolini