Se Giulio Cesare avesse avuto la tv

«La politica spettacolo» di Staterà «La politica spettacolo» di Staterà Se Giulio Cesare avesse avuto la tv NELLA storia dei mezzi di comunicazione di massa e del loro rapporti con la politica, un punto fermo, o forse il punto di avvio, è rappresentato dal famoso dibattito televisivo tra John Kennedy e Richard Nixon nel 1960. E' opinione largamente diffusa che il candidato democratico alla presidenza degli Stati Uniti arrivò alla Casa Bianca invece di quello repubblicano anche, se non soprattutto, per aver avuto la meglio nel duèllo davanti alle telecamere (e ai milioni di elettori che per la prima volta assistevano tutti insieme a una sfida dei genere). Ma giustamente nel libro La politica spettacolo Gianni Staterà, direttore del Dipartimento di sociologia dell'Università di Roma, e studioso'in particolare di «strategie comunicative», risale a precedenti anche più remoti, quando non c'era ancora la televisione, ma c'era già. la radio. Fu attraverso le onde radiofoniche, appunto, che i grandi leader politici degli Anni Trenta, nel bene e nel male, scoprirono la possibilità di raggiungere col loro «messaggio», direttamente e simultaneamente, le grandi masse. Nel male, Hitler, che affidò alla sinistra spettacolarità dei suoi discorsi, diffusi dalla radio in tutto il Reich, il tentativo, riuscito, di coinvolgere la quasi totalità dei tedeschi nel delirante disegno nazista. Nel bene, Roosevelt, che si servì delle sue pacate «conversazioni davanti al caminetto» per mobilitare la democrazia americana, prima contro la grande crisi economica e poi contro lo stesso Hitler. (Per inciso, della radio continua a servirsi in una regolare trasmissione di fine settimana, anche il «grande comunicatore» televisivo dei nostri giorni, Ronald Reagan). In Italia, il fenomeno della «politica spettacolo», cioè della politica che si affida, per raggiungere i cittadini, e influenzarli, ai mezzi di comunicazione di massa, col rischio o con l'intenzione di trasformarsi essa stessa in un fatto d'immagine, è relativamente recente. Le prime «tribune politiche» sono degli Anni Sessanta. Ma, secondo Staterà, bisogna aspettare gli Anni Ottanta, e in particolare le elezioni generali del 1983, per assistere a una vera e propria «spettacolarizzazione» della politica. Grazie anche all'irruzione nella campagna elettorale dei «networks» privati, che puntano tut.tg sulla figura dei maggiori dirigenti e jj^U^lpro,scontri diretti, fuori dai rituali-' ' smi" della "Rai-tv, si verifica quella «per¬ .quella «per- ' pi dirigenti e i dai rituali- quella «per¬ quella «per- Guide ai vini italiani UNA trentina d'anni fa. nel 1958, per l'esattezza, Luchino Visconti mise in scena la riduzione drammatica d'un romanzo di Thomas Wolfe, Veglia la mia casa, Angelo. La casa in questiono occupava interamente, fino al mantello d'Arlecchino, il palcoscenico dei Quirino di Roma. In alto, pressoché invisibile dalla platea, c'era la finestra d'una stanza, alla quale si affacciava l'attrice Adriana Asti. Ma la stanza era perfettamente abitabile, con letto, lenzuola, comodino, luce da notte, e cosi via. Tutto, naturalmente, nello stile dell'arredamento richiesto dallo spettacolo. Konstantìn Stanislavskij, mezzo secolo prima di Visconti, faceva la stessa cosa. In quello splendido saggio che è II trucco e l'anima, Ripellino racconta come, in Interno di Maeterlinck, Stanislavskij avesse messo un attore, truccato e in costume, dietro una finestra. Doveva restarci per tutta la durata dello spettacolo, benché fosse assolutamente impossibile vederlo dalla platea. E Dancenko, condirettore del Teatro d'arte di Mosca insieme a Stanislavskij, non era da meno. In Ivanov di Cechov, aveva fatto costruire, a fianco del palcoscenico, due stanze invisibili agli spettatori: erano il salotto e la camera di Sara, scrupolosamente arredati fin nei minimi particolari. Quando non erano in scena, gli attori andavano a sedersi 11, per continuare a vivere i loro personaggi. Le analogie non finiscono qui. Visconti era famoso per i suoi capricci. A volte l'intera compagnia sospendeva le prove, fossero anche le «generali», perché un oggetto, un ninnolo, un quadro, un tappeto, non era precisamente quello che lui aveva chiesto. Stanislavskij fece spesso altrettanto. E' sempre Ripellino a riferirlo. Pare che una volta mandasse i direttori di scena in giro per tutta Mosca a cercare un cappello che doveva essere prepisamente quello che luf avéva^ vistò, in un dipi'ntó<fa'tó'una sonalizzazione della leadership», che sarà da allora una costante "della politica italiana. A beneficiarne, osserva il sociologo, sono i leader dei partiti laici intermedi, cóme Craxi e Spadolini, più che quelli dei due partiti maggiori, De Mita e (allora) Berlinguer. Quest'ultimo, drammaticamente, riserverà un «effetto» positivo al suo partito un anno dopo, alle elezioni europee, quando l'emozione per la sua improvvisa scomparsa influenzerà molti elettori. Ma in generale, il pei, più ancora della de, fatica, per la sua vecchia natura di partito-chiesa, racchiuso in un suo universo ideologico, a piegarsi alle esigenze della politica-spettacolo. Quando comincia a farlo, è nel senso di «una progressiva attenuazione della sua diversità». Stanislavskij nel «Gabbiano»,

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