Fernanda Pivano: quella traduzione mi aveva reso mille lire (del 1943) di Fernanda Pivano
Fernanda Pivano: quella traduzione mi aveva reso mille lire (del 1943) Fernanda Pivano: quella traduzione mi aveva reso mille lire (del 1943) ROMA — Quando si dice Spoon River, in Italia, si dice Fernanda Pivano: la scrittrice che ci ha fatto conoscere tanti autori americani, ma che viene identificata col libro da lei tradotto quando aveva vent'anni. Ne ha scritto, ancora, tante volte, gli è rimasta legata senza potersene sciogliere, da allora. Perfino nel suo recente romanzo, «Cos'è più la virtù», il motivo di Spoon River ritorna, con frequenza. — Perché, Fernanda Pivano, il successo di questo libro? «Probabilmente perché si rivolge alla libertà esistenziale della gente. Della gente comune, la gente di tutti i giorni. L'antologia ha uno sfondo libertario e su 'questo sfondo rientrano tutte le varie libertà: politica, sessuale, di vita. Proprio per questo è apprezzato soprattutto dai giovani; sono gli adolescenti, che se lo regalano. E' un libro di culto degli innamorati: cosa che mi fa immensamente piacere». — Quale è la difficoltà maggiore che lei ha trovato nella traduzione? «La difficoltà maggiore era che non avevo neanche il vocabolario, allora. Cera la guerra e io avevo soltanto il vecchio piccolo Oxford, che non dava ie parole americane. Ricordo chr non riuscivo a capire la parola "plow", perché non sapevo che era l'inglese "piotigli", aratro. E io non ero esperta». — Ha fatto qualche errore? «SI, ce n'è uno, che mi rimproverano ancora oggi. Nella poesia di Percival Sharp, dove si parla "delle cause determinanti e del calcolo delle possibilità". Io ho tradotto quel verso facendo un errore di matematica. Ancora la scorsa settimana un professore di Lecce ani ha scritto una lettera di quattro pagine, per accusarmi di avere sbagliato. Ma vedo che anche nella traduzione della Bur, appena uscita, quell'errore non è stato corretto. C'è il mio verso, tale e quale. Cosi quel professore di Lecce si arrabbìerà un'altra volta. E' curioso come questi amici che fanno le traduzioni nuove poi ricopino anche gli errori». — Non l'aveva aiutata. Pavese? «L'aiuto di Pavese è stato fondamentale. E' lui che mi ha dato il libro. Ma io l'ho tradotto senza che lui lo sapesse. Io non sapevo nemmeno, allora, che esistesse il mestiere del traduttore. Poi ha fatto tutto lui. Ha trovato la traduzione e l'ha portata da Einaudi». — Quanto le ha reso, questo lavoro? «Mille lire, del 1943. Einaudi mi fece un contratto per quella cifra, con una clausola che liberava l'editore da altri impegni». — E poi non ha più avuto nulla? «Alla ventisettesima edizione ho chiesto di rivedere il contratto. Da allora, cinque o sei anni fa, ho avuto una piccola percentuale. Ma quella traduzione l'avevo fatta cosi poco a fini di guadagno che ho lasciato passare ventisei edizioni senza dire niente. La mia felicità era che il libro circolasse fra i ragazzi». — Non la imbarazza un po', dopo aver scritto tanti libri, essere identificata sempre come la traduttrice di Spoon River? «No. Io ho amato tanto questo libro die mi fa piacere. E' un libro di giovani, è un libro che parla a loro. Pavese, sulla copertina della seconda edizione, aveva scritto: "La Divina Commedia del nostro tempo"; e la sua frase era stata stampata in rosso, con la sua calligrafia. Non voglio dire che sia la Divina Commedia. Era una trovata di Pavese. Ma ancora oggi è un libro che fa presa. E io non mi vergogno di averlo amato». — Fra tutti i libri da lei tradotti quale ama di più? «Il grande Gatsby. Addio alle armi. Era stato Hemingway che avevo imposto la mia traduzione alla Mondadori. E adesso che Hemingway e Alberto Mondadori non ci sono più ne stampano un'altra. Addio alle armi, si». — Più di Spoon River? «Ah no, Spoon River è stato il primo. E il primo amore resta, sempre». g. c
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