rinnegare i nostri padri

Un awenimento editoriale: tutti i versi dello scrittore «grande estraneo» del '900 Un awenimento editoriale: tutti i versi dello scrittore «grande estraneo» del '900 Per amare Noventa dobbiamo rinnegare i nostri padri LA pubblicazione, secondo un plano di organica completezza, di tutte le opere di Giacomo Noyenta costituisce un avvenimento culturale di grande rilievo. L'Iniziativa è dell'editore Marsilio; 1 volumi previsti sono cinque, il primo dei quali è dedicato all'opera poetica mentre 1 restanti quattro raccoglieranno 1 saggi di carattere filosofico e ideologico e gli scritti di polemica letteraria e politica sparsi sinora in varie sedi (perlopiù riviste) di difficile reperibilità, o addirittura inediti. n volume di cui per ora disponiamo 6 quello del Versi e poesie, a cura e- cori; prefazione di Franco Manf redini (325 pagine, 60.000 lire). Al nucleo fondamentale dell'unica raccolta die ii poeta pubblicò in vita (nel 1956 per le edizioni di Comunità e quattro anni dopo, con aggiunte, per Mondadori) seguono i materiali, postumi usciti nel '63 presso Scheìv/ffler e un gruppo di ' diciassette inediti ritrovati in tempi successivi. Credo che;non si possa parlare della poesia.di Noventa senza avvertire Innanzitutto che sul conto di essa esìste, nella cultura letteraria italiana, un forte anche se non sempre esplicito contenzioso, n problema non consiste, come sembra credere Manfredini, nel fatto che Noventa sia «un autore sicuramente sconosciuto al più», e nemmeno nella'«quasi totale indifferenza» riservatagli dalla «cultura ufficiale»; basta sfogliare le antologie, scolastiche e no, degli ultimi vent'anni, o scorrere l'elenco del partecipanti', al convegno su Noventa organizzato alla fine di giugno dalla Fondazione Cini, per convincersi che le cose non stanno — o non stanno più — in questi termini. Il problema è un altro, e assai più di fondo: è possibile «credere» alla poesia di Noventa senza condividere, almeno in parte, il totale e tenace rifiuto da lui opposto, durante tutta la sua vita, alla poesia dei suoi contemporanei, cioè senza •dubitare», poco o tanto, della poesia di coloro che da decenni consideriamo i nostri maestri di poesia? Siamo tutti convinti, credo, che non esiste un solo Novecento, che la poesia italiana del Novecento è una realtà vasta e .complessa nella quale c'è posto quasi per tutto: per il monolinguismo di Ungaretti e per 11 plurilinguismo di Rebora, per l'espressionismo di Tessa e per alleanza cattolica tra signori e contadini. E' nel dialetto, grazie al dialetto, che — come ha scritto Franco Fortini — Noventa «riesce a parlarci di quel che la cultura moderna non sa più nominare»: il valore, l'onore, la lealtà... Questo essere (e voler essere) altrove che nel proprio tempo, questo sdegno verso la coscienza torturata o dimidiata del suoi contemporanei, fanno il fascino sottile e penetrante, l'amara eleganza, la straordinaria e scostante «incorruttibilità» della poesia di Noventa. Per ammirarla, basta avere un po' d'orecchio e qualche buona lettura, da Goethe a Heine, da Chiabrera al miglior Carducci. Per amarla occorre qualcos'altro: occorre, letteralmente, uscire da noi stessi, rinnegare i nostri padri — e non soltanto quelli letterari. Ma Noventa, oltre che poeta, è anche o soprattutto un pensatore. Per citare ancora Fortini, .è stato e sarebbe un errore considerare la poesia di Noventa sema porla in rapporto al suo pensiero filosofico e politico». Solo studiando questo rapporto (e l'edizione di cui stiamo parlando ce ne fornirà, una volta completata, la possibilità e lo stimolo) potremo forse sottrarci alla necessità di una scelta che, personalmente, non mi sento di compiere: abbracciare le umili e taglienti, evangeliche e sprezzanti «verità» del gran signore e buttare a mare le Inquietudini, le contraddizioni, le angosce piccoloborghesi delle quali ci siamo cosi lungamente nutriti e che sono insieme il volto e la maschera, la miseria e la gloria del nostro tempo. Giovanni Raboni del resto, lui li considerava) alla stregua di altrettanti spregevoli mistificatori. Carlo Bo ha scritto una volta, con lapidaria durezza, Che Noventa •non tiene conto del simbolismo». E' vero; e si potrebbe aggiungere, per restare vicini alla nostra storia, che non tiene cento di Pascoli; ma è una motivazione ancora troppo specifica, troppo «letteraria». La diversità di Noventa (diversità rispetto a tutti, compresi quelli che, per affinità ideologiche o per ammirazione personale, si proclamano o si sono proclamati suol discepoli) è una diversità «naturale», una diversitàche viene prima della letteratura e persino prima dell'ideologia; è, come dire?, una questione di razza. A Noventa, aristocratico di nascita e aristocratico-popolare per scelta e convinzione politiche, ciò che è totalmente, profondamente estraneo — estraneo sino alla ripugnanza — è il dramma della piccola e media borghesia lacerata fra autolesionismo e autocompatimento, fra sensi di colpa e occultamento di responsabilità: un dramma che tutti i grandi poeti italiani del Novecento hanno vissuto e al quale, ciascuno a suo modo, hanno dato voce. Noventa no: Noventa non condivide questo dramma, lo allontana da sé con noia, con disgusto; e, insieme ad esso, rifiuta la lingua tremante, ambigua e sublime che ne è figlia e testimone, materia e latrice. AI suo posto, sceglie 11 dialetto, che nel suo caso non è certo la lingua delle classi subalterne, ma la lingua semplice e altera dell'antica Giacomo Noventa in un ritratto di Renato Guttuso l'impressionismo di Penna, per la melodia esistenziale di Saba o di Betocchi e per lo scosceso, dissonante analogismo di Montale e di Luzi... Ma quasi tutto non vuol dire tutto. In realtà, dei poeti citati nessuno è totalmente «estraneo» a nessun altro; mentre (questo è il punto) Noventa è estraneo a tutti loro, e lo è in modo cosi radicale che, se volessimo davvero considerarlo un poeta importante e rappresentativo del nostro secolo, saremmo costretti a buttarne fuori tutti gli altri, a considerarli (come, UN serio lettore del Malleus maleficarum di Sprenger e Kramer o del Compondlum maleficarum di Guaccio — testi fondamentali per addentrarsi nei rituali satanici e riconoscere dai sintomi chi merita il rogo — sa che il folletto nord-europeo non frequenta volentieri i cupi territori della Controriforma, più consoni a diavoli, streghe, maghi e infernali patteggiamenti. Esclude la presema di esseri leggeri e beffardi, occupati in tutt'altre faccende mentre nei paraggi si celebra il sabba con tanto di caprone nero sul trono e gli accoliti che si dannano l'anima. A questo lettore ortodosso va subito ''segnalata l'opera di un testimone di quegli anni, che forse gli farà cambiare opinione: Demanialità di Ludovico Maria Sinistrali (16321701), oggi pubblicata da Sellerio (109 pagine, 12.000 lire) e ottimamente curata da Carlo Carena. L'autore era consultore del Sant'Ufficio, nemico dei giansenisti, più volte esorcista e una volta destinatario di una lettera personale del diavolo, che non ne poteva più di venir perseguitato. Ciò nonostante era anche cultore dell'atomismo, scrittore di epitalami e di una commedia (La PlrloneaJ; la sua specialità era però il diritto penale per gli ecclesiastici, che trattò in tre ponderosi volumi, l'ultimo dei quali — che in italiano suonerebbe stranamente Dei delitti e delle pene — fini all'indice per certe pericolose affermazioni: essere per esempio lecito a un frate affamato rubare, al confessore assolvere i fedeli dalla colpa di aborto, alle donne frequentare le sacrestie dei conventi. In 121 paragrafi Demonialità parla dei rapporti carnali fra i demoni e gli umani. Fonte primaria rimane il Guaccio, ma Sinistrart gli raccoglie attorno molte altre autorevoli citazioni per dimostrare che, mentre i diavoli in quc.nto puri spiriti praticano il sesso sulla terra facendo uso di corpi altrui e al solo scopo di colpire la religione, esiste una grande famiglia di incubi dai corpo sottile s dall'anima passionale che riconoscono la divinità di Cristo e coi partner se la cavano senza l'aiuto di nessuno.' i primi sono immortali e abitatori dell'Inferno, gli altri invece mortali e ancora in viaggio verso la dannazione o la salvezza. All'incubo non interessa affatto nuocere alle anime, tanfi vero che spesso si ac- Due testi per capire uno degli aspetti più bui del Seicento