Di scena i fantasmi dei Perón

Di scemi fantasmi deiPerón ARGENTINA: MITI, CRISI, SPERANZE D'UNA DIFFICILE DEMOCRAZIA Di scemi fantasmi deiPerón A Buenos Aires il Maipo è sempre esaurito per il musical «Eva», l'ennesimo lavoro dedicato alla moglie del dittatore - Al Liceo si rappresenta «Salsa Criolla», un'altra cavalcata storico-musicale, con balletto di generali golpisti - Così, a teatro, la borghesia argentina partecipa a uno psicodramma collettivo sul suo passato: indignazioni, pentimenti, soprattutto contraddizioni e angosce DAL NOSTRO INVIATO BUENOS AIRES — L'altra sera ho incontrato il generale Perón. Era a teatro, nel vecchio salone Maipo di Calle Esmeralda. Ho incontrato anche la sua signora, Eva *Evita* Duarte. Ma lei era Nadia Guevara: bionda, spigolosa, l'attrice le somigliava come uno specchio, ma si vedeva che era una finitone. Invece lui no. Il colonnello sembrava proprio lui in persona, con la sua pancia, i pantaloni zuavi, gli stivali tirati con la cera. Se era un attore il trucco valeva un premio; ma forse era un fantasma autorizzato. Comunque come un fantasma inquieto lo ha visto il pubblico che riempiva la sala, in un silenzio affascinato di odi e di rimpianti. Da quando hanno messo in scena Eva, musical biografico della memoria collettiva dell'Argentina, Calle Esmeralda è tornata ai fasti di un tempo lontano. La sera, con il solo biglietto d'ingresso, il Maipo esaurito offre a ciascuno l'opportunità irripetibile di riprendere tra le mani, per un attimo, il filo della propria vita. Le voci di golpe, che di tanto in tanto tornano a riempire le chiacchiere di Buenos Aires, sembrano inchiodare il Paese alla fissità dei suoi destini. Tutto torna subito a essere come prima, come sempre. Eppure, sotto la superficie dì questo 'disincanto» stanno passando correnti nuove, c'è un tormento che la vecchia Argentina di prima non conosceva. La meschinità amara, la miseria morale di gran parte della sua borghesia, acculturata, vitaiola, consumista, si stanno piegando a un ripensamento della propria identità. Dice il poeta Juan Gelman: «Quest'Argentina, media, numerosa, diffusa, patente per peso economico, , politico e sociale, ma debole , nella conoscenza reale di sé stessa, non è capace di vive ] re una tragedia o un dramma: può subire al massimo una crisi di coscienza, incessante e incurabile». La Eva del Maipo l'hanno scritta Nadia Guevara, Pietro Or gambi de e Alberto Favero. I tre hanno subito l'esilio e hanno voluto il ritorno come un riscatto dalle scelte obbligate; la rabbia, la nostalgia, i desideri accumulati nei tanti anni fuori da questa pampa che segna l'orizzonte metafisico della vita di un argentino, si sono avvitati attorno al progetto di un racconto in musica dove Eva è tutto: una donna e un simbolo, la rivolta popolare, ma anche il riscatto individuale, la vendetta però anche il sacrificio. Inavvertitamente, inconsciamente, la sublimazione ha guadagnato sulla rimozione; e la storia della signora Perón si trasforma in un melodramma rivissuto con passione riverente, una sorta di confessione collettiva che tenta di mettere assieme la storia ideologica dei tre autori, certo ribelli e di sinistra, con le tentazioni autoritarie, accantonate ma mal cancellate, di gran parte di coloro che ogni sera affollano ti Maipo. In sala la borghesia argentina celebra ti giudizio su sé stessa. «Chi siamo?» A vedere Eva c'ero Miguel Briante, uno scrittore giovane come Osvaldo Soriano, stessa vita di rivolte e Ironie disperate, e come Soriano ha un passato errabondo, che dalla provincia del peroniamo è poi arrivato all' amara consapevolezza della città. «Il tempo del mito ormai si è consumato. Sul mito noi abbiamo costruito gran parte della nostra storia passata, anzi questa storia (la mia, quella di Osvaldo, quella dell'Argentina) sono stati proprio i miti, filtrati magari attraverso l'immaginario del cinema o del teatro, o anche della letteratura: erano la nostra identità comune, il desiderio e la vita; ora non sappiamo nemmeno conoscerci per come slamo veramente. Ci vorrà forse il tempo di una generazione, e forse non basta neppure». £' venuto a vedere Eva come chi va al museo, ma a un museo fatto dal bricà-brac della propria esistenza. La crisi di coscienza di questa società media comunque non lo riguarda. Nell'ultima scena, quando Evita muore, da dietro la testata del letto parte una raggiera di luci che tagliano ti fonda¬ le buio del palco: Nacha-Evita si offre al pubblico alla maniera della Vergine di Lujdn, una santa martire sacrificata sull'altare della storia collettiva: Binante scuote Ut testa arruffata: «Ma quale ironia? Non c'è proprio nessuna ironia: il misticismo di quelle luci è anche l'assoluzione d'una società dalle sue responsabilità». La frattura L'autoassoluzioné dell'Argentina qualunque prosegue al Teatro Liceo, tra Rtvadavìa e Parane. Lo spettacolo è Salsa Criolla, una cavalcata storico-musicale,' còme la chiama il sub autore, Enrique Pinti: Finti è uno dei geniacci acidi, del{a: scena ur¬ gentina, una sorta-di fusione nucleare tra Buazzellt e Mostel: è un panzone agitato, enorme, con l'ironia rapace della comicità ebraica e una parlata a mitraglia. La sua cabalgata parte dalle avventure marinare di 'un Cristoforo Colombo un po' gay e arriva fino alla bicicletta finanziaria dell'ultimo Pian A us trai. Tra couplet, ritmi, ballerine, paggi effeminati e travestimenti . azzardati, l'antologia di storia argentina ha cattiverie sufficienti per divertire sema ingolfare 10 spirito ben disposto della borghesia porteria. Solo che Salsa Criolla dura assai più a lungo del suo copione, anzi ha un secondo imprevisto monologo che quasi raddoppia ti tempo ufficiale dello spettacolo. Quando ti sipario si chiude e arrivano gli applausi soddisfatti di chi ha potuto ridere su se stesso senza troppa vergogna, toma infatti In scena 11 Pinti e comincia una requisitoria da lasciare col flato corto. Se lo show era allegro e Irriverente quanto basta (e il balletto del generali che fatino e disfano i golpe è una novità piuttosto audace per le abitudini serali degli argentini), la-predica che 'poi Pinti svolge a ruota Ubera ! non kc misura né ritegni. Sboccato, triviale, Irrefrenabile, masticando lunfardo e lingua In un pastiche gergale che solo la gente di Buenos Aires può cogliere nel pieno travolgente della sua durezza, l'attore consuma una confessione pubblica di responsabilità e di colpevolezza che non vogliono perdoni. Pinti parla per sé, ma il suo «Yó» diventa subito il «nosotros» di tutta una generazione. I silenzi troppo muti, gli occhi che non volevano vedere, le orecchie tap¬ pate a ogni sparo e a ogni voce che veniva dall'inferno, lentamente ma inesorabilmente nella denuncia Impietosa dell'attore si dipana il filo d'una storia di vita quotidiana dove le complicità hanno prevalso sull'indignazione, gli opportunismi sulla ribellione, l'indifferenza opaca sul rifiuto a tacere. Il grassone continua a far ' spettacolo, è il suo mestiere, ma la violenza del suo gergo salta la frattura che divide finzione e realtà: e sudato, teso, col dito puntato, chiamando in causa gente concreta, fatti, nomi, persone, storie da tutti conosciute e da tutti lasciate nell'ombra ambigua dei ricordi, Pinti recita contemporaneamente Dio e Giuda, Fiorendo Sdnchez e Argertch. Senza cambiare i panni né 11 tono, né la disperazione tutta ebraica di questo angoscioso torrente di colpa, lui è l'imputato e anche il giudice d'una nazione intera. O comunque della sua classe qualunque, della sua gente media, che vive la propria storia ancora con la convinzione rapace dello spirito di frontiera. «Solo che qui la frontiera non è stata il Far West, dice Soriano. Qui non c'era l'avventura della conquista, la lotta contro la durezza della natura, lo spirito della costruzione. Qui ha prevalso il disprezzo del lavoro umile, faticoso». La geografìa e lo sviluppo del caciquismo, dell'allevamento hanno imposto i miti non del capitalismo ma dell'oligarchia. «In questo popolo di piccoli commercianti 11 modello del desiderio è l'orgogliosa iattanza dell'hidalgo spagnolo. Tentata solo dalla dolcezza del fallimento, dal mito dell'insuccesso». Risveglio In questi giorni l'Argentina a teatro commemora, senza forse darsene conto, la storia della propria identità. E lo psicodramma collettivo' detta sua borghesia senza qualità si celebra tra contraddizioni e angosce. Ma non resta nel vuoto, si radica comunque dentro ti processo di costruzione di un paese nato da un sogno. Nella Sala Casacuberta lo Stefano di Armando Discépolo racconta anche quest'altra Argentina, quella che manca la sua scalata sociale nella promozione borghese: e con l'incapacità del musicista Immigrato a essere nuli'altro che un modesto arrangiatore, Il «deseo del fracaso», questa tentazione genetica della sconfitta diven¬ ta metafora di un popolo. Il lavoro di Discépolo ha pochi compiacimenti, l'atmosfera cupa del dramma non chiama complicità né le consente; confrontarla a Evita-Nacha e a Pinti serve solo a sbrogliare le complessità dt questa società in crisi, recuperando tutti i referenti fondamentali della sua storta e della sua psicologia collettiva. Ma niente di più. Dall'altra sera non ho più rivisto Perón. Lui ogni notte contìnua certamente ad accelerare i battiti cardiaci detta gente del Maipo, ma come tutti i fantasmi fa paura solo a chi vuole aver paura. Questo paese oggi é inquieto'. Incerto, ha anche paura: va perdendo la propria identità e non conosce ancora la nuova. Le chiacchiere di un golpe continuano come sempre, ma sembrano solo l'abitudine, parole sema fatti. Chiudendo questo lungo viaggio in Argentina, si possono usare forse le parole che et diceva l'altra notte Soriano. E' un intellettuale amaro, doverosamente pessimista. Eppure a bassa voce confessava: «Dicono che l'Argentina muore. No, non capiscono, sono solo i dolori del parto». Mimmo Candito li generale Perón in una caricatura di David Levine. A destra, Alberto Favero, Nadia Guevara e Pedro Orgambide, autori del musical «Eva» in scena a Buenos Aires