L'industria pesa meno di Alfredo Recanatesi

L'industria pesa meno Un fenomeno per ora trascurato L'industria pesa meno Il ristagno della produzione industriale, unito al crescente squilibrio che si rileva negli scambi con l'estero, se si considerano in quantità piuttosto che in valore, conferma che nel nostro sistema economico è in atto un processo di deindustrializzazione, ossia una riduzione della incidenza dell'industria nella formazione del reddito complessivo. E' un processo che non va confuso con quelle della transizione verso. non meglio definiti assetti post-industriali. II prodotto dei servizi cresce, ci mancherebbe altro; ma con una velocità solo di poco superiore a quella media del reddito e, comunque, ben lontana da quella che potrebbe denotare una mutazione caratteriale del sistema economico nel suo complesso quale viene prefigurata dalla ricca e, talvolta, disinvolta letteratura su questo argomento. No, quella che abbiamo sotto gli occhi non e una deindustrializzazione evolutiva verso attività più avanzate che possono soddisfare in misura almeno pari le esigenze di benessere e di perequazione sociale. E' una deindustrializzazione e basta; è un processo involutivo, uno spiazzamento a beneficio di altri .sistemi economici la cui crescita, invece di incalvarci verso un funzionale assetto post-industriale, ci scalza dalle posizioni che avevamo conquistato imponendoci squilibri commerciali e disoccupazione. Del resto, è sempre consigliabile tenere i piedi per terra e non dimenticare che per un Paese di quasi sessanta milioni di anime, molte delle quali hanno la ventura di trovarsi nel Mezzogiorno, solo esercitazioni di stampo letterario possono esimersi dell'assumere l'industria come il fondamento di ogni sorta di economia produttiva, per quanto moderna ed avanzata la si voglia immaginare. La deindustrializzazione, dunque, è tutt'altro che una evoluzione positiva: costituisce invece un problema di politica economica e industriale che può essere meglio definito richiamando le principali cause che la stanno determinando. La prima causa va individuata nel disavanzo pubblico. Gli elevati rendimenti che imppne per ogni tipo di attività finanziaria spiazzano le prospettive di redditività degli investimenti industriali limitando la convenienza ad effettuarne solo alla fascia di essi che assicura il ritorno più rapido, sicuro e remunerativo. Non c'è dubbio che per un Paese come l'Italia una selezione cosi restrittiva degli investimenti è un lusso a dir poco stravagante. Una seconda causa e la rigidità dell'impiego di manodopera. La discesa dell'inflazione che ha depotenziato i meccanismi di indicizzazione ed i massicci investimenti che l'industria ha effettuato per ridurre il fabbisogno di manodopera rendono l'argomento decisamente demode. Ciò non esclude, però, che continuano ad operare i vincoli i quali impediscono ogni impiego elastico o, se si vuole, congiunturale, del fattore lavoro. La differenza rispetto al passato è soltanto nella circostanza che essi non gra¬ vano più tanto sull'impresa, in termini di onere economico, quanto sulla collettività, in termini di disoccupazione o, almeno, di quella parte di essa che potrebbe essere sicuramente assorbita se le imprese fossero meno trattenute dall'approfittare anche delle opportunità transitorie che il mercato offre. Una terza causa del processo di deindustrializzazione va individuata nel cambio della lira. 11 rigore della politica con la quale è stato gestito negli ultimi anni ha avuto il merito di spingere le imprese a ricercare con maggiore determinazione competitività ed efficienza. Ma una perpetuazione di questa politica rischia ora di imporre costi maggiori dei benefici. La fascia delle imprese più reattive ha ormai assimilato tutta rinnovazione di processo e di prodotto consentita dall'attuale livello delle conoscenze tecniche e tecnologiche. Le imprese che sono rimaste attardate incontrano evidentemente ostacoli che il pungolo del cambio non può da solo rimuovere. La conclusione alla quale e facile pervenire, dunque, è che il cambio — in particolare quello con il marco tedesco — sta diventando vieppiù penalizzante della produzione italiana rispetto a quella straniera. La politica del cambio ormai si giustifica soltanto in chiave antinflazionìsta dovendo essa surrogare l'incapacità di inaridire le fonti strutturali della nostra inflazione. Ma e, appunto, un surrogato che, proprio in quanto tale, sta imponendo costi sempre più pesanti. Alfredo Recanatesi

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