«Alla Savigliano comprammo un tornio»
Alici Savigliano comprammo un tornio « » Che cos'erano gli operai a Torino nel dopoguerra: convegno di studi e testimonianze Alici Savigliano comprammo un tornio « » «L'azienda nel 1950 era in crisi e noi rinunciammo a percepire sette mesi di salario arretrato» TORINO — -Nel 1950 la Savigliano dove lavoravo — racconta l'on. Alasia — entrò in crisi. I lavoratori dovevano percepire sette mensilità arretrate. L'azienda incassò una fattura e noi ci ponemmo l'alternativa: portare a casa qualche soldo arretrato o consentire alla Savigliano di acquistare un grosso tornio necessario alla costruzione della Centrale di Chivasso. Decidemmo, sia pure tra contrasti, per l'acquisto del tornio. A quei tempi il concetto di produzione era dentro alle persone e non posso non ricordare con indignazione il "vallettismo" che divideva, invece, i lavoratori in "costruttori" e in "distruttori"-. E' stata questa una delle -testimonianze- che hanno conferito -sapore- alla giornata di studio e di dibattito promossa dall'Istituto universitario di studi europei con la collaborazione della Fiat «per la ricostruzione storica dei tratti e dei momenti più rilevanti che, sul fronte delle culture produttive, hanno caratterizzato lo sviluppo industriale e l'evoluzione sociale di Torino, dal dopoguerra alla /ine degli Anni Settanta-. Il lavoratore descritto da Alasia non è piaciuto all'on. Tridente: -L'operaio massa esisteva anche allora — ha sostenuto — e gli specializzati erano pochi. Io credevo nella produttività e nella ricostruzione postbellica, però in fabbrica si soffriva; ero per otto ore ad una piccola pressa e mi sentivo impazzire al punto die mi inventavo i mal di pancia per fuggire. La cultura produttiva a Torino, in complesso, era molto meno nobile di quanto a posteriori si tenti di far apparire-. Molto vicine all'immagine dell'orgoglioso operarlo -di mestiere- le testimonianze dell'ex operaio Longo e dell' ex allievo Fiat Cabodi. L'ing. Peyron della Direzione prodotto della Fiat ha -raccontato- i suoi trent'anni di lavoro dalle aziende di 300-1.000 dipendenti -dove il lavoro era percepito come un valore positivo comune a tutta la gerarchia di fabbrica- alle dimensioni dei grandi complessi produttivi fino alla -esplosione dell'autunno caldo-, preceduto da radicali cambiamenti dei modelli gestionali e da crescenti difficoltà ambientali. L'imprenditore Mandelli. vicepresidente della Confindustria, a testimonianza del fatto che -la cultura del lavoro era di massaha ricordato che sul retro della tessera del pei stava scritto: -L'operaio comunista sul lavoro deve essere di esempio a tutti gli altri-. Poi, alla fine degli Anni Settanta, si è arrivati alla -cultura della destabilizzazione, al salario variabile indipendente, ai salvataggi delle industrie decotte, alla cultura del non lavoro-. Folto l'intervento di studiosi (Giugni, il francese Fridenson. Cova della Cattolica di Milano, l'americana Miriam Golden, Peschiera, Stragiotti, Barbano) con alcuni politici (gli ex sindaci di Torino Novelli e Porcellana) e sindacalisti (oltre a Tridente anche Ferro) sulla relazione introduttiva del prof. Sabelli. Tra l'altro Sabelli ha messo in rilievo che la -fierezza del mestiere- è andata perdendosi quando tutto venne affidato ai rapporti di forza, fino al rifiuto di ogni discorso di compartecipazione e di re snonsabilizzazione. e all'affermarsi del potere di veto e di sanzione senza alcuna regola. A giudizio di alcuni, com preso Castronovo che ha fat to l'intervento conclusivo (in un paese come l'Italia, che ha il più forte partito comunista tre le nazioni industrializzate a regime democratico) l'ideologia dell'operaio-produttore alimentò, nel primo dopoguerra come nel secondo. • aspirazioni più generali di ordine politico fino alla prospettiva di un rovesciamento degli stessi rapporti capitali siici di produzione e all'in staurazione di una democrazia proletaria-. In altre parole la centralità della fabbrica e dei rapporti di forza come strumenti per obiettivi politici fecero premio sulla centra lità del produttivismo e del l'industrialismo operaio. Sergio Devecchi
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