Questo esercito, specchio del Paese di Ernesto Galli Della Loggia

Questo esercito, specchio del Paese «IL MORALE DELLA TRUPPA»: UNA LETTERA DI SPADOLINI Questo esercito, specchio del Paese Caro Direttore, mi riferisco all'articolo del collega Ernesto Galli della Loggia pubblicato sulla tersa pagina della Stampa intitolato 'Il morale della truppa». Nelle questioni militari il moralismo è spesso facile. E facili le condanne sommarie. Ma l'esercito di popolo — cosi come l'ha voluto la Costituzione repubblicana — è uno spaccato del popolo appunto: riflette tutte le contraddizioni e tutte le insufficienze nazionali. Rispecchia la distribuzione degli orientamenti politici, delle energie ma anche dei mali del Paese. Non può essere paragonato — come fa Galli della Loggia — a eserciti fondati sulla nazione armata, sulla nazione combattente, come l'esercito di Israele, che unisce un'integrale dedizione nazionale a un'alta specializzazione professionale. E neppure può essere paragonato al modello di esercito tedesco immaginato da von Moltke. Non mi sentirei di condividere, neanche da storico dell'Italia post-risorgimentale, il giudizio apodittico che l'esercito sia stato sempre dominato «di volta in volta dal carrierismo e dalla retorica-. Più che dal carrierismo si potrebbe dire che nei primi decenni della vita dello Stato unitario l'esercito sia stato dominato dall'antagonismo spietato negli alti comandi e dall'insofferenza reciproca fra le varie armi, fra le varie forze armate, in una concezione orgogliosa e spesso corporativa: Fenomeno del resto comune a tutti i Paesi dell'Europa dell'Ottocento e dei primi del Novecento. Ma l'esercito di questi quarantanni di Repubblica ha tratti distintivi profondi e peculiari rispetto a quella che è stata la tradizione risorgi¬ mentale e post-risorgimentale. «Non può bastare una spedizione in Libano e un generale Angioni, dice Galli della Loggia, per convincere gli italiani che le cose sono davvero cambiate-. Invece: il Libano riflette la nuova realtà dell'esercito italiano e delle forze armate italiane. E' stata la prima spedizione — al di là della modestia dei mezzi impiegati — dove si sia verificata una vera e propria integrazione interforze, cioè il principio ispiratore degli ultimi tre anni di gestione delle forze armate codificato nel Libro bianco 1985. Basti pensare che in quell'occasione un generale di brigata dell'esercito aveva la facoltà di ordinare alle navi italiane, ancorate nel porto di Beirut, di assicurare la copertura di artiglieria al contingente di terra, intelligentemente dotato solo di armi leggere, per evitare le fatali rappresaglie che sono costate tanti morti ai nostri alleati americani e francesi. E' esistito, nel caso del Libano, un perfetto coordinamento fra il ponte aereo, che ha garantito per un anno e mezzo il collegamento fra la madrepatria e il contingente di terra (il più numeroso dei Paesi occideritali: con tutti i problemi logistici connessi), e le forze terrestri e navali sistematicamente impiegate in quel terri torio a fini di stabilizzazione e di pace. Non si sarebbe arrivati al successo della spedizione nel Libano, il più significativo impegno militare dell'Italia dopo la Liberazione, se qualcosa non fosse cambiato rispetto a quelle costanti di separatezza e di autoctonia, che hanno connotato in più di un momento la storia delle forze armate prefasciste. E basti pensare al grado di internazionalizzazione che lo stesso inserimento nell'organismo Nato ha rappresentato per tutti gli ufficiali della generazione, appunto, del generale Angioni. Cioè coloro che hanno circa cinquanta anni adesso e si sono formati in un clima di cooperazione e di integrazione fra esperienze diverse che fu sconosciuto al vecchio esercito nazionale, autarchico e anche provinciale italiano, pur connesso alle pagine gloriose del Risorgimento. Ci sono certi grandi insufficienze, e grandi difetti nella struttura militare. Ma dire cìie tutti gli incidenti o i suicidi in caserma dipendono dalle condizioni di vita «scadentissime e molto spesso indecorose» è dire cosa che, come tutte le generalizzazioni, è impropria e fuorviante. Vorrei offrire ai lettori della Stampa una statistica delle caserme dell'esercito. Sono circa cinquecento. Cento anteriori al Novecento, riflettono cioè in larga misura quella laicizzazione di istituti od organismi ecclesiastici che compi la destra storica e che porta ancora a utilizzare edifici die furono una volta di culto (forse non a caso si parlava di «clero laico- per l'esercito all'indomani dell Unità, negli anni dominati da quella che non fu la retorica del mondo di De Amicis). Ci sono poi 350 edifici costruiti fra il 1900 e la fine della seconda guerra mondiale. Purtroppo solo cinquanta edifici sono stati costruiti dopo la Liberazione. Esiste un problema di strutture che non riguarda la caserma -Baldassarre' di Maniago costruita nel 1962 e da me visitata lunedi, fra le più recenti e fra le più spaziose del nostro Paese. E da anni è allo studio un piano di am¬ modernamento e adeguamento delle infrastrutture relative: piano che esige mezzi di cui, allo stato degli atti, non disponiamo. Vorrei citarle testualmente quanto dicevo alla tv oltre un anno fa, il 24 aprile 1985: «C'è un piano di rifacimento che procede con lentezza. I suicidi: come media nelle caserme non sono diversi dalla media nazionale. Però non c'è dubbio che incidenti ce ne sono, che ci sono suicidi, che ci sono situazioni che io ho già esaminato apertamente, di disagio e di frustrazione. E soprattutto c'è un grande senso di vuoto, perché in molte caserme manca troppo spesso la capacità addestrativi per mancanza di poligoni, per mancanza di palestre. Allora spesso i soldati non sanno cosa fare, che è la peggiore delle noie. Il governo deve provvedere ad assicurare in questi dodici mesi un addestramento, anche dal punto di vista ginnico, per cui talvolta mancano le strutture. Sono insufficienze che hanno radici molto antiche». E che esigono anche rimedi coraggiosi, come la riduzione del contingente di leva, già avviata. Esistono certo altri mali tradizionali nelle caserme che noi ci sforziamo da anni di combattere con estrema durezza e che purtuttavla resistono alle direttive del Ministro, all'azione dei Capi di S. M. delle Forze armate, all'azione spesso efficace dei comandi locali. Mi riferisco per esempio al ^nonnismo-, un fenomeno degradante che prolunga all'interno di talune caserme quelle forme di goliardia spoliatrice e intollerabile che hanno caratterizzato la vita dell'Università con l'ingresso delle 'matricole- ancora in tempi di cui la nostra generazione serba memoria. Anche in occasione dei suicidi nel Friuli sui quali sta indagando l'autorità giudiziaria ordinaria (sola competente in questi casi) con tutta la libertà e l'autonomia necessarie — e sul quale è in corso un'indagine avviata dalla Commissione difesa della Camera — ho ribadito questo criterio di massima che dovrà essere inflessibilmente perseguito dall'amministrazione militare. E faremo tutti quanti il nostro dovere perché i difetti del Paese, anche in questo campo, siano riparati. Ma mi consenta di respingere ogni generalizzazione in questo come in altri settori. La macchina militare, che incide sul bilancio dello Stato in modo paragonabile solo agli ultimi Paesi dell'alleanza atlantica erogatori di minori risorse per la difesa (come il Portogallo e il Lussemburgo), è una macchina che riflette in tutto e per tutto lo stato della nazione. Ci sono difetti da correggere, eredità secolari da abbattere, abitudini inveterate da rettificare. C'è un grande patrimonio di idealismo e ci sono anche forme di deviazione come in tutti i settori della società italiana. Non è diversa l'università. Non è diversa la scuola. Non è diverso il sistema sanitario. A quarantanni dalla nascita della Repubblica, noi vediamo insieme i passi in avanti compiuti e anche le grandi insufficienze che dobbiamo affrontare. E sentiamo di essere più responsabili, come classe politica, delle seconde che non dei primi. E' malinconico; ma è così. Giovanni Spadolini

Persone citate: Angioni, De Amicis, Galli, Giovanni Spadolini