Venezia, antichi e nuovi stregoni

Venezia, antichi e nuovi stregoni OGGI SI APRE LA PIÙ' VASTA BIENNALE MAI REALIZZATA: 826 ARTISTI, 2500 OPERE Venezia, antichi e nuovi stregoni Una parata di sculture sul Bacino di San Marco collega le mostre dell'immensa rassegna - «Arte e Scienza»: da manoscritti^ alchemici a luci e video della creatività contemporanea - Immagini di biologia microscopica a confronto con le fantasie di Kandinsky e Miro - I mezzi elettronici al servizio del restauro - Fra postavanguardia e postmoderno cadono mode e miti I VENEZIA — Mentre Firenze gioca con qualche affanno con il sospirato e sprecato gadget di capitale europea della cultura, mentre Bologna prepara silenziosamente per l'autunno il gran trionfo internazionale dell'arte emiliana del '500 e del '600, Venezia gli stessi trionfi li sta celebrando, con una sorta di antica prodigalità dogale, sul versante contemporaneo. La dimensione imponente dei futurismi di Palazzo Grassi sembra di per sé produrre altrettale imponenza di afflusso. A Cà Pesaro, bisongerà riparlare dell'intrigante, distillatissimo racconto («alchemico» quant'altri mai) di fantasie, di ultramondi, di incubi del grandissimo Klee. Alla Scuola Grande di San Giovanni Evangelista, Piero Dorazio, pur presente con alta qualità alla sezione «Colore 2» della Biennale (Corderie dell'Arsenale), schiera una bellissima, arcobalenica rassegna dell'ultima produzione. Infine, fra i tradizionali Giardini di Sant'Elcna e i contingui complessi delle Corde¬ rie dell'Arsenale e del Palasport, collegati da una lussureggiante parata di grandi sculture all'aperto a specchio sul bacino di San Marco (i due Cascella e Franchina, Mainolfi e Notargiacomo, Mastroianni e Turcato, Spagnulo), Maurizio Calvesi e i suoi collaboratori concludono un ciclo direttoriale sotto il sigillo di «Arte e Scienza». E' un sigillo che non nasconde, anzi si inorgoglisce di sue finalità anche didascalicostoriche: basti pensare alla bella, efficace appendice alle Gallerie dell'Accademia, in collaborazione con il ministero per i Beni Culturali, sull'indagine scientifica ottico-elettronico-fisica al servizio del restauro. Si spazia dunque dai manoscritti e stampati alchemici, ermetici, sulla pietra filosofale dal XIV al XVIII secolo allo scorrere, nel padiglione «magico» di Giorgio Celli, di immagini mescolate di biologia microscopica e di segni-forme fantastici di Kandinsky o Mirò, Pollock o Levi Montalcini. Dal modello in legno della cupola del Brunellcschi, ricostruito secondo l'elaborazione di un calcolatore Olivetti, e dallo Spazio in frammenti 1985 di Philippe Cornar, riconducibile ad illusione prospettica attraverso la lente, ai modclli-strutture-sculture di concentrazione spaziale di Buckminster Fullcr e allo stordente (e, nonostante la magia tecnologica, estremo orientale) Spazio cibernetico di Wen-Ying Tsai. Dalla didattica cromatica, nata nel Bauhaus o da esso discendente, di Jtten o di Lohsc alla creatività delle immagini computerizzate e del «videotex», fino al Network e all'installazione di suoni, luci e video di Brian Eno (ma anche, sul versante tccnologico-concettualc, all'Editala delle apparizioni di Piero Fogliati). Storia e filosofia della scienza e occulto e inconscio della metascienza alchemica; tecnologia e grandi filoni vitali della creatività contemporanea, dal cubofuturismo all'astrattismo otticocostruttivista, dal surrealismo al senso del «meraviglioso» in natura: le Wunderkammern e scrigni e arma- di rcpertoriali del '500 e '600 e le trasmutazioni concettuali delle materie primarie e «povere», Pascali e Fabro, Parmiggiani dello Zoo geometrico e Paolini di Ebla, Zorio e Penoic, Mcrz e Anselmo. Questo mi sembra il punto hiave: sotto questo amplissimo apparato storico-didattico, grazie al quale, in molti se non in tutti i settori (e sono subito da citare «Spazio» a cura di Giulio Macchi, «Wunderkammer» ovvero Arte, e Meraviglia a cura di Adalgisa Lugli, «Colore» 1 e 2 a cura di Attilio Marcolli e Fausta Squittiti), una volta tanto fra struttura «a tesi-temi» e concrete presenze contemporanee corre un buono, talora ottimo, rapporto di significatività e coerenza, vi è, credo, un preciso — e per me soddisfacente, sottoscrivibile — giudizio sullo «status» della più stretta contemporaneità e sui suoi valori reali. Il che significa anche giudizio su quelli caduchi. Fuori di metafora, cadono più di un mito, più di una moda fra postavanguardia e postmoderno. Proprio per questo, il punto «debole» dell'insieme — e uso il termine del tutto a ragion veduta —, per di più straripante dal punto di vista quantitativo al di là della significativa ma assai brutta cupola «recuperata» di Galileo Chini del 1909, è la sezione «Arte e Alchimia» di Arturo Schwarz. Quanto di affascinante e misterioso e conturbante poteva nascere (e in effetti nacque, fra De Chirico e Picabia, Mirò ed Ernst, Masson e Brauncr; e ancora Licini e Dubuffet e Kolàf) dall'in contro tra le fantasie inconsce e autodistruttive della cultura | di un secolo per tanti aspetti incubico e l'antica mitologia ermetica e alchemica, è lctte.ralmcnte sminuzzato e svilito da una debordante presentazione di ogni pur minimo percorso dell'avventura surrealista. E proprio perché non taramente ci si imbatte in capolavori di qualità — altrettanto pittorica quanto di elaborazione fantastica — (molti però ben noti; ma una felice sorpresa, rara, è la Filosofia illuminata dalla luce di Dali, del 19J9), tanto più spicca la congerie di opere decisamente in¬ sopportabili. Ma soprattutto appare un po' troppo scoperta "a funzione di «contenitore di recupero» di questa sezione. Non parlo tanto di qualche più o meno giovinetto italoccntrale che, nel flusso postmoderno coltiva una filiforme corrente neosurrealista; quanto delle opere evidentemente, anhe se non tutte, elaborate per questa occasione da esponenti delle varie transavanguardic, dove si salvano per autonoma validità solamente quelle di Paladino e di Cucchi, ma senza alcun rapporto con il tema alchemico, pur dilatato all'estremo. La «debolezza» è tanto più constatabile, palpabile, se viene messa a confronto con lo straordinario fascino della sala centrale di «Wunderkammer», con le sue vetrinette-museo alternanti meraviglie e mostruosità di natura e di arte con gli oggetti surrealisti di Breton o di Man Ray, della Oppenheim e di Cornell. Di confronto meno immediato e diretto, è comunque da sottolineare la qualità anche spettacolare, ma soprattutto la ricchezza metodologica della sezione «colore», dalle avanguardie (notevolissima soprattutto la presenza dei costruttivisti sovietici e dei «formisti» polacchi) a un'attualità del tutto vitale, compresa l'esperienza optical. Lamentele, soprattutto fra artisti, ha suscitato questo debordare di «Arte e Scienza» nel padiglione centrale — quello tradizionale italiano — e di lì anche alle corderie, a danno delle limitate «personali», quasi creando — ma non è vero — due Biennali. Dovendo necessariamente tornare sul tema, per quanto riguarda la sezione italiana vera e propria (coerente, di massima, con la presa di posizione critica di cui ho detto), i padiglioni sttanicri, con l'autentica meraviglia di Buren in quello francese, lo sconfortante Aperto '86, vi è qui solo da dire che proprio quel significato di giudizio critico sull'oggi proposto in gran parte di «Arte e Scienza» elimina la lamentata dicotomia. Il direttore uscente merita, questa volta, l'onore delle armi. Marco Rosei | Vasilij Kandinsky: <■ I .<> slancio moderato» (1944, pari.) in mostra nella sezione «Arte e Biologia» Alberto Savinio: «La sposa fedele» (1929), esposto alla Biennale nella sezione «Arte e Alchimia»

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