Byron il funambolo

Byron il funambolo SI RISCOPRE IL POETA ROMANTICO Byron il funambolo Wordsworth, Coleridge, Byron, Keats, Shelley; in quale ordine di importanza dovremmo allineare questi nomi? All'epoca loro non ci fu alcun dubbio su chi incarnasse il Grande Romantico inglese, perlomeno davanti agli occhi del pubblico: gli altri quattro vendevano decine di copie, Byron decine di migliaia. Oltre a essere fuori portata di qualsiasi poeta moderno, le prime tirature di alcuni suoi libri farebbero gola a molti romanzieri di oggi. Morto Byron, il vittorianesimo britannico gli preferì moralisticamente Wordsworth, ma ancora negli anni 1880 il critico principe Matthew Arnold finiva per assegnargli la palma nel quintetto, più che per l'opera, tuttavia, per la risonanza mondiale della sua figura, in cui si etano rispecchiati gli ideali di libertà di più nazioni. Gli esteti fine secolo fecero invece una bandiera di Keats, difensore della bellezza pura, affrancata da fini utilitari. Il Novecento avrebbe salu tato alternativamente in Shelley un precursore dei suoi fermenti politici, in Coleridge un creatore di simboli e allo stesso tempo il postremo esponente di una cultura vasta e antica, di cui l'uomo sta perdendo il senso (è l'epoca di T.S. Eliot e della Terra disolala). Nei Grandi romantici ingioi, uscito all'inizio della Grande Guerra, Emilio Cecchi dedicò a Byron la più impietosa delle stroncature, vedendo in lui soltanto il fatuo narcisi sta e il retore, in sostanza l'archetipo del peggior Gabriele d'Annunzio. Grazie all'uscita di ottim srudi biografici e soprattutto del monumentale epistolario a cura di L. A. Marchand (completato nel 1982), tempi ancora più vicini a noi hanno una volta di più riproposto Byron all'attenzione generale, sempre come personaggio; sul cui so dalizio in Svizzera con Shelley dovrebbero essere girati questa estate ben due film, uno diretto da Ken Russell, l'altro dall'indomabile John Huston. Lo scrittore vive invece solo in parte. Oggi si ammira il disincantato, spregiudicato e spiritosissimo descrittore di se stesso delle lettere — che unite formano un vero capolavoro involontario, da accostarsi ai massimi epistolari di ogni tempo; e l'ironico, impudente, vivacissimo virtuoso di Don Juan (la cui classica traduzione del Betteloni è stata recentemente rispolverata dalla Bur), poema che faticò a imporsi ai critici inglesi perché scandaloso nel tono e alieno nella forma, modellata sull'ottava del nostro Pulci, ma oggi acquisito stabilmente agli atti come il capolavoro deliberato del nostro. Due opere così bastano a giustificare una fama, ma tutto sommato il Byron che tanto colpì la fantasia dei suoi contemporanei non era questo. Era quello di Childe Harold e dei poemetti narrativi, taluni in forma drammatica, un autore pertanto difficile da offrire a un pubblico come quello odierno, che tollera la poesia solo nel frammento breve e intenso. Tuttavia sintomi di curiosità anche per il Byron fuori moda sono sempre più avvertibili, e un buon passo verso la loro soddisfazione mi sembra sia stato compiuto con l'ultimo numero della gloriosa Collezione di Poesia Einaudi: una raccolta curata da Cesare Dapino e intitolata Pezzi domestici e altre poesie. Ci sono, presentati dal curatore con un entusiasmo pionieristico, molti brani brevi, una volta celebri o celeberrimi (alcuni per la verità continuano a figurare in tutte le antologie), come So, Well Go No More a-Rowing, come i versi scritti in occasione del proprio trentatreesimo c del proprio trentaseiesimo compleanno. Ci sono i Domestic Pieces, donde il titolo, con le chiacchieratissimc stanze alla sorellastra Augusta e altre composizioni ispirate dal naufragio del matrimonio. Soprattutto, ci sono le melodiose liriche intitolate Hebrew Melodies, nate per Ja musica, poi in gran parte venuta a mancate, del giovane compositore Isaac Nathan. Nella densa introduzione CLudio Gorlier dice che «tra le accrczioni più persistenti, formatesi sulla sua opera, quella di una lettura biografica o autobiografica appare senza dubbio la più vistosa, e ovviamente Li più distortamente paradigmatica». Evitare questo tipo di lettura appare d'altro canto difficile, oltre che scoraggiato dallo stesso Byron. Il quale, è vero, aspirò al nitore classico coltivando forme poetiche rigide e desuete, e salutando sempre, polemicamente, il suo maestro in Alexander Pope, bestia nera di quasi tutti i poeti della nuova generazione. Ma d'altro canto, come e forse più di rutti quei poeti, pose incessantemente al centro della sua opera se stesso. Come possiamo leggete altro che in chiave autobiografica poesie quali, poniamo, quella in celebrazione della famosa traversata a nuoto dell'Elle sponto (di cui Byron menò sempre tale vanto da scrivere anche lunghe lettere ai giornali quando altri viaggiatori tentarono di metterla in dubbio) o l'invettiva contro la governante Mrs Clermont, che accusava di aver seminato zizzania fra se stesso e la moglie? Pctché, insomma, distinguere fra il poeta il personaggio? Byron fu Byron, fu i suoi poemi e fu i suoi atteggiamenti. Diamo piuttosto atto a un buon numero dei suoi versi di essere sorprendentemente attraenti, ancora oggi. Come tradurre questi versi, piuttosto? Byron era così fiero dei sui funambolismi stilistici, soprattutto della sua abilità nel trovare rime, cosa spaventosamente difficile in inglese, che udito di un traduttore italiano di Childe Harold in sem¬ plici sciolti, arrivò a pagarlo di tasca sua perché rinunciasse a pubblicare la propria fatica. Lui stesso, Byron, aveva dopotutto tradotto il Morgante Maggiore nello stesso metro del Pulci. Fatiche del genere oggi sono improponibili. Io una volta mi arrischiai a riprodurre un metro giocoso di Swift con analoga spensieratezza, e un ambizioso nuovo periodico letterario mi dedicò una pagina intera di improperi. Da quel fiasco devo confessare che mi è rimasta una simpatia per i coraggiosi traduttori-poeti, e pertanto ho scritto volen fieri due righe di presentazione a un altro interessante volumetto byroniano anch'esso appena uscito in libreria, Poemi ferraresi a cura di Mario Roffi per la neonata Liberty House. Roffi, che nella ricordata Collezione di Poesia Einaudi tradusse a suo tempo Keats e Mussct, ha riunito i non moltissimi componimenti ispirati a Byron dalla sua città, primi fra tutti i poemetti Parisina e // lamento del Tasso. Egli sfida gli anatemi di Byron, rinunciando alle rime, ma anche quelli del mio censore txAVIndice, traducendo in poesia; con risultati che almeno io trovo piuttosto validi. Trovo peraltro valida anche l'economia, la precisione non di rado l'eleganza della versione di Dapino, che presenta molte soluzioni felici Possiamo mettere a confronto i due traduttori accostando le Stanze al Po, ossia il solo com ponimento che figura in en trarnbe le raccolte. Dapino: «Fiume che scorri proso le mura antiche, I Dove vive la donna del mio amore, quando I Cammina accanto alla tua sponda, e là di me I Richiama forse un ricordo vago e fuggitivo; 11 Oh, se il tuo corso ampio e profondo fosse I Specchio del mio cuore, ed ella vi leggesse I I mille pensieri che ora ti confido, liberi I E precipitosi come la tua onda rapida!». Roffi: «0 fiume che scorri presso le antiche I Mura ove sosta la mia donna amata, Quando ella lungo gli argini passeggia I E per caso di me le risowiene I Un debole e fuggevole ricordo; Il E se fosse il tuo corso cupo e fondo I Lo specchii del mio cuore, dove leggere I Ella può i mille pensieri che a te I Consegno, tempestosi come l'onda I Tua e irruenti come le tue rapide?». Quale preferite? Masolino d'Amico Byron visto da Irvine (Copyright N.Y. Revlew of Boote. Opera Mundi e per l'Italia .La Stampa.)

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