Schiaffo all'orgoglio della nazione araba di Igor Man

Schiaffo all'orgoglio della nazione araba Schiaffo all'orgoglio della nazione araba Ossessivamente Radio Tripoli, fra un comunicato e l'altro, tra un proclama e una poesia, trasmette una canzone egiziana che, ai tempi in cui Nasser era il profeta laico delle masse arabe, risuonava dall'Atlantico al Golfo: «Giuriamo che il sole della Nazione araba non tramonterà mai». E colui che è convinto d'essere il delfino di Nasser, il colonnello Muammar Gheddafi, oggi «gestisce» la tempesta che si è abbattuta sulla Libia con indubbio vigore propagandistico e gran senso dello spettacolo. Ma senza trascurare gli strumenti diplomatici. Ancora una volta la baraka (quel qualcosa in più della fortuna) ha salvato Gheddafi. Se qualcuno avesse voluto liquidarlo, non avrebbe perso l'occasione del bombardamento notturno su Tripoli e Bengasi. Ma nessuno ha osato levare la mano contro il leader, né mettere la stricnina nel latte di cammella ch'egli beve in continuazione. E ciò perché non è possibile aggregare il malcontento all'opposizione sotterranea e dargli uno sbocco golpista, quando il sentimento popolare esalta il nazionalismo, l'orgoglio patriottico, riassumendolo automaticamente nella figura del Raiss, il capo. Lui, Gheddafi, beduino dalle sette vite. L'America ha vinto una battaglia ma non certo la guerra, dicono al Cairo, anche se politicamente, con il blitz, esce vincente dal braccio di ferro col Colonnello. La solidarietà espressa alla Libia dai vari leader arabi, infatti, è puramente di facciata: le annose rivalità rimangono, forse persino esasperate dalla frustrazione. L'Urss s'irrigidisce, ma ri mane da vedere se oserà superare il livello di sicurezza. Un proverbio beduino dice che la vendetta è un piatto che si mangia freddo. Una delle massime autorità del mondo sciita, Mohammed Hussein Fadlallah, il capo spirituale degli integralisti di Hezbollah, quel «partito di Dio» che addestra terroristikamikaze nella libanese Valle della Bekaa, ha detto: «Gli Stati Uniti vedranno aumentare il terrorismo che presumono di voler combattere attaccando un piccolo Paese arabo quale la Libia. Non si facciano illusioni: pagheranno con gli interessi il loro delitto. Il terrorismo non l'ha inventato Gheddafi, esisteva prima di lui e continuerà finché non sarà resa giustizia al popolo palestinese». Son parole inquietanti. - «Umiliando» Gheddafi, gli Stati Uniti umiliano il mondo arabo, e questo non sarà senza conseguenze. Un uomo moderato quant'altri mai, il prof. Klibi, il tunisino Segretario generale della Lega Araba, ha detto: «E' inammissibile che la nazione-simbolo della democrazia e della libertà sia diventata un gendarme al servizio della causa israeliana; è assurdo che abbia compromesso, in maniera forse irreversibile, i rapporti con i popoli arabi». Dal suo bunker scavato nel deserto sirtico, Gheddafi spedisce messaggi a Gorbaciov ma anche agli Stati Uniti: la Libia non è il cuore del terrorismo, protesta, bensì un piccolo Paese che insegue un ideale di pace nel nome della v.ausa palestinese. Chiede la convocazione del Consiglio di Sicurezza e nello stesso tempo detta slogan che i transistor diffonderanno, in tutto il mondo arabo: «Non ci lasceremo mettere in ginocchio... l'attacco contro la Jamahiriyah è contro la grande nazione araba... ricordatevi del Saladino e di Gamal Abdel Nasser... non c'è vita senza fierezza, non c'è popolo senza sacrifici». Molti sono convinti, nel mondo arabo, che il gong dell'ultimo round debba ancora suonare. Il primo a rendersene conto è Gheddafi, l'uomo che nel bene e nel male ha fatto della Libia, già «provincia» del faraone egiziano, un Paese vero e fiero ancorché troppo ricco di fantasia. L'ultima voi ta che l'ho visto, a Taurga, sotto la sua tenda beduina, il Colonnello mi disse che lo scontro fra «il cow-boy gigante e il piccolo beduino» gli ricordava il famoso sofisma di Achille e la tartaruga. Sapremo forse presto se !a violenza provocherà altra violenza e se Gheddafi, una volta ancora, riuscirà a cavalcare la tigre, ovvero sarà costretto a cavalcare l'asino del diavolo, come dicono gli arabi di uno che cammina verso l'abisso. Igor Man