La foresta sommersa

La foresta sommersa TRA I «PASSI» DELLA LAGUNA La foresta sommersa Pasqua di marzo, troppo presto per il turismo. Ma comincia uno spettacolo in questi giorni a Venezia che Sfugge ai computers del Nostro Settore Trainante. Investe l'intera laguna, dalle dighe del porto ai canali sotto casa, e non fa un rumore: il «passo» delle seppie, il primo di tutti i passi di primavera, in piena città: messo in moto dalle orbite, lassù, della luna equinozionale. Con la marea crescente, piccoli mostri ovale-allungati, incantevoli, tutti occhi e tentacoli, cominciano a premere tra le bocche dei litorali, sfiorano chiuse, banchine, paratie, solcano specchi impassibili, si lasciano andare ai giri delle correnti: presto saranno torme. Ora capitano nei «ghebbi» più lontani, e ora qui, contro il Palazzo Ducale. Cercano gli anfratti più sicuri per deporre i grappoloni di uova nel grande utero liquido. Lungo le rive marmoree le aspetta la fine. Venezia che s'allunga da mare a laguna con tutti i suoi labirinti, sembra fatta apposta per prenderle: a una ccrt'ora, la sera, diventa una rosata macchina di sterminio, raffinata cornice di imminenti agonie. Col primo buio, si illumina: non per il santo weekend, ma per loro, le seppie in transito: lampade inquiete sulle rive combinano tetre luminarie, tra canali gonfi e pietre bianche. Arrivano stanche, intontite, accecate. Ma è il momento che la seppia è più dolce, e le luci irresistibili sono spesso mortali. Passo da una lampada al l'altra, da un pescatole all'ai tro, sulla punta della Dogana battuta dalla corrente: ora nel buio, e ora tra lampi stravolti, in situazione quasi onirica piccoli mostri eleganti appaiono per un attimo giù nell'acqua bianco-verde, e l'attimo dopo eccoli scagliati, deformi, sui merletti delle pietre tra nere chiazze di inchiostro. Un certo tipo di seppia più allungata e tentacolare delle altre risponde dall'acqua con deboli fosforescenze ai nostri fasci di luce; e ora riprova anche qui, sulla riva, tra le chiazze palpitanti: è con tutta probabilità — mi assicurano — «l'ultimo esemplare». Questa storia dell'ultimo non mi dà pace: siamo anche noi esemplari superstiti, tra queste quattro isolcttc. Filo via, mi metto per strada in cerca del loto nido, gli «alberi» delle seppie. Chissà che sfuggano stasera alle luci degli uomini: vento fresco e maretta, qualche giustiziere resta a casa. Se la fortuna o la corrente le aiuta.., allora cercano cordami sommersi tra vecchie pietre, prediligono resti di brigantini, catene di ancore, filari di siepi anfibie: depositano nelle pieghe più tiepide del gran ventre liquido le piccole sfere gelatinose che via via si ingrossano come frutti sugli alberi: bianchi, grigi, violacei. Finché scoppiano fuori le seppioline, che subito ripartono all'inverso sullo stesso percorso. Il guaio è che per riuscire a buttare un occhio su questa patte più misteriosa del viaggio bi sogna andare nei quartieri verso la grande laguna, nelle isole meno inquinate: traversare la città, trovare una barca da quelle parti. Proverò allo «stazio» di Martino, al Castel Oli volo. ** Ma nel dedalo di muri e canali, è già ora di fare il punto, di interrogare la memoria. Strana «conduttrice» la combi nazione di vecchie case, canali, marea montante: fa risalite dal fondo tutti i sedimenti, salvo quelli topografici. Tra svolte di rive, trafori di portici, precipizi di ieri e di oggi, finisci per girare a vuoto, non so come capito al Ponte degli Scudi: di qua e di là, calli incerte, semibuie. E non c'è un'anima: di fronte il muraglione dell'Arsc- naie pare sopraggiungere dal paleolitico, la curva bianca della riva si chiude a conchiglia, senza un'era definibile. Acqua immobile a filo della riva: aspetta da sempre, protegge, culla, corrode, stacca sempre di più noi «ultimi» dal mondo della velocità, che forse è quello della vita — è un nodo scorsoio —, Venezia. Via per cene strettoie, certi imbuti senza nome... Mi tra- sonano loro, dove devo andare: scopro architetture leggere tra acqua e aria, traforate come brigantini sommersi. Mi appoggio a un muro tiepido, quasi mi appiccico come le seppie tra i cordami, e riemergo: lo stazio di Martino è qui, in Riva dell'Olivolo. Tutta la laguna davanti, verso i forti medievali: ma a quest'ora — fa Martino — è troppo tardi, la barca è già in secco: vero che c'è un po' di luna, ma se aedi di vedere qualcosa... Vado da solo — dico —. Allora si convince. Prepariamo la barca, chissà che riusciamo a scovarli, gli alberi sottomarini coi nuovi frutti. ** Partiamo, ma l'acqua non si decide staseta, testa al colmo. E' quel quatto di luna lassù che la tiene alta, d'accotdo col vento. Fosse un fiume in corsa, lo specchio qui attorno: ma questa laguna quasi immobile non dà un'idea del tempo che passa. Piuttosto svaluta ogni nostro moto, ogni passaggio sulla tetta, per trasferirlo, che lo vogliamo o no, in termini cosmici: luna e marea sono un invito da grandi lontananze a ritmi oscuri, all'immersione nel liquido, a non credere nelle resurrezioni. Il contrario della Pasqua, come la pensiamo qualche chilometro più in là, sul continente. Puntiamo verso la laguna Nord, bassi fondali tra curve di tamerici. Eccole, a nuoto lento, una qua e una là, in cetea del nido. Ne vediamo una coi suoi lunghi tentacoli, aperti come braccia, abbacinata: per ota, accesa la lampada, siamo solo noi che vediamo. Tta poco, appena si libeta del peso, ci vedrà meglio lei: riceve lunghezze d'onda che noi non captiamo. Marea in discesa, finalmente, tra i fosti spugnosi degli ailanti che crescono un po' in acqua e un po' in tetta. Sotto il filo liquido, lì dentro, comincio a intravedere alberi che non sono solo il riflesso dei fantasmi qui fuori: rami che scorrono, pietre che si dilatano, chiome .cariche di gemme, di ovuli, di frutti minuscoli, di chicchi d'uva appena spuntati... Fino a una certa profondità si va meglio con la lampada; ma non più sotto, l'acqua è densa, rimanda aloni diffusi. Spegniamo. Meglio abituarsi alla luce della luna: lampada perfetta, si muove lentamente, e lentamente scopre la fioritura qua e là d'un albero o d'una pietra, compone ombra dietro ombra il mobile acquerello della foresta lattiginosa. Metto dentro una mano, provo: niente, non rie sco a toccate i tami, sono sempre un po' più in basso della marea più bassa, più profondi delle nostre misure. La luna ora rivela meglio gli alberi sulla terra, anfibi, insulari; e ora, tra chiazze limpide e bianco-dense, gli uni e gli altri, sopra e sotto, nel doppio bosco di latte. Sfioriamo con le dita i germogli terrestri: gonfi, in tensione: crescono dal profondo, si moltiplicano appena sopra, in sintonia. Siamo a Pasqua — fa Martino —, quest'anno sì che capita giusta. L'esatto momento dell'incontro — raro — tra primavera di mare e di terra. Qualcosa dev'essere avvenuto, infatti, lì dentro: ecco uno di quegli ultimi esemplati, fosfotcscenti: risale solitaria, veloce; altre filano via guizzando. Non abbiamo cuore di beccarne una, né prima né dopo i loro misteri tra alberi sommersi. Paolo Barbare»

Persone citate: Paolo Barbare

Luoghi citati: Venezia