Un fratello scomodo nella nazione araba di Igor Man

Un fratello scomodo nella nazione araba Un fratello scomodo nella nazione araba La Lega Araba riafferma la sua «solidarietà» r.icr.a alla Jamahiria libica. Quel segretario generale ha già condannato le «provocazioni» americane, ricordando come i Paesi della Lega siano legati da un patto di difesa comune. A Gheddafi codesta solidarietà diremo di principio non basta. Il Colonnello esorta i Paesi «fratelli» a giustiziare «esperti e consiglieri» americani in tutto il mondo arabo. E tuttavia Gheddafi sa benissimo che nessun Paese arabo, neanche il più radicale, oserà mai assassinare un «esperto» statunitense. (Almeno in questo momento). Gheddafi non si fa illusioni, sa di non essere amato dai vari leaders arabi che lo considerano nel migliore dei casi un indisponente grillo parlante quando non un vero e proprio destabilizzatore. Gheddafi sa, però, che la sua chiamata alla «Jihad» (guerra santa) contro l'America «imperialista, complice del sionismo» una certa eco l'avrà presso le masse arabe, specie di quei Paesi — come l'Egitto —, tormentati da gravi crisi economiche. E sa, Gheddafi, che i leaders dei Paesi «fratelli» sanno com'egli sia capace di sferrare colpi bassi. Il linguaggio apocalittico di radio Tripoli, mutuato dalla retorica della Rivoluzione culturale cinese, non deve far sorridere. Gheddafi ha già dimostrato in passato di essere in grado di spedire da un capo all'altro del mondo «commandos» suicidi. Certamente non saranno le «squadre suicide» a incenerire la VI Flotta, ma potrebbero senz'altro far scorrere sangue sui marciapiedi del Cairo o di una qualsiasi città europea, colpevole di ospitare «esperti e consiglièri» americani. Nessun Paese arabo scenderà in campo contro gli Stati Uniti, nemmeno la Siria. Ma nessun Paese arabo può tollerare, senza perdere la faccia, che gli americani umilino troppo la Libia; Gheddafi o non, rimane pur sempre una nazione araba. Nemmeno l'Egitto, alla lunga, non fosse altro per non offuscare la sua credibilità nel Terzo Mondo. La stessa Olp di Arafat, del resto, che da Gheddafi ha avuto tanti dispiaceri, ha proclamato «.appoggio totale» alla Jamahiria libica. Agli ^.abi il richiamo, a suon di cannonate, alla Convenzione di Ginevra del 1958 da parte degli Stati Uniti appare pretestuoso. In ogni caso non si risolve un contenzioso come quello del Golfo della Sirte con la forza, anche perché «// Terzo Mondo non accetta più un diritto stabilito dalle potenze marittime senza il suo concorso; diritto che considera contrario ai suoi interessi». Forse — dicono a Tunisi —, sia il Colonnello che la Casa Bianca non immaginavano che le cose sarebbero andate come stanno andando. Gheddafi avrà pensato che gli americani anche questa volta non avrebbero varcato il 32° parallelo (la «linea della morte»); Reagan si sarà rifiutato di pensare che Gheddafi osasse lanciargli contro i missili Sam 5. Ma ora bisognerà adoperarsi affinché la tensione si attenui. In questa direzione, sotto la spinta del principe Saud Feysal, si sta muovendo il Paese arabo di maggior peso: l'Arabia Saudita, che non ha mai negato a Tripoli solidarietà (e aiuti) pur mantenendo eccellenti rapporti con Washington. Se la tensione non si attenuasse, l'Unione Sovietica, infatti, potrebbe trovarsi costretta a rivedere il suo fin qui prudente atteggiamento, finendo coinvolta nello scontro fra il Colonnello e il presidente Reagan. E' questa la grande preoccupazione dei Paesi arabi moderati, delusi sì dalla «pax americana» ma neanche attratti da quella sovietica. Una personalità mediorientale ci ha detto per telefono: «Leprossime 48 ore diranno se l'azione americana è in consonanza con un colpo per rovesciare il regime tripolino. Se così fosse, tanta e pericolosa mobilitazione di forze nel Mediterraneo avrebbe un senso. In casp contrario Gheddafi uscirà rafforzato dalla crisi mentre il terrorismo internazionale avrà una terribile impennala, non risparmiando nessuno». Igor Man