Re Cinema in cerca di Oscar

Re Cinema in cerca di Oscar A HOLLYWOOD TORNANO I GRANDI FILM, TRA CONSOLAZIONI (E FURIOSE POLEMICHE) Re Cinema in cerca di Oscar ✓ — ' s. «La mia Africa» di Pollack e «Color porpora» di Spielberg aspirano a essere un esempio di grandezza insieme fisica, tecnica e morale -1 critici li trovano lontani dalla realtà: nel primo, dicono, «manca la Storia»; nel secondo «si guarda ai negri come a E.T.» - Ma il pubblico approva questo cinema americano impegnato a sfidare la tv, la sua angustia culturale, la penuria di profondi sentimenti - Una formula che non sarà dimenticata NEW YORK — Saranno molto soddisfatti di se stessi, la sera degli Oscar, a Hollywood. Si diranno l'un l'altro che grandi film sono stati prodotti, grandi registi hanno offerto il loro impegno, grandi attori hanno lavorato e il risultato è un ritorno del grande cinema. Scambiandosi gli Oscar, avranno l'impressione di celebrare più la cultura che la produzione, più i valori morali che quelli del box office. Qualche sguardo sarà appannato dall'emozione, qualche discorso sarà patriottico. Soprattutto ci sarà, a Los Angeles e — attraverso la televisione — in tutta l'America, la persuasione che le grandi produzioni sono anche grandi esempi inorali. O almeno questo accadrà per i due massimi aspiranti a tutti i premi di Hollywood: Color Purple (Color porpora) di Spielberg e Out of Africa (La mia Africa) di Pollack. La reazione critica, per questi due film, in America, è stata rutt'altro che un coro di approvazioni. Ma non ha torto chi afferma che ciascuno di questi film illumina l'altro di una luce che è più forte delle singole recensioni, del parere di questo o quel critico, e persino delle perplessità di coloro che entrano al cinema già esaltati dall'attesa e ne escono un poco delusi. . Questi film — lo hanno detto Pauline Kael, Vincent Canby, William Denby, Stanley Kauffman, scrittori guida della critica americana — sono «nobili». Prima di tutto è nobile l'argomento. In La mia Africa c'è l'evocazione e la nostalgia di un paradiso perduro che non era un paradiso qualunque: era il sogno di vivere, superiori ma buoni, nella terra dei negri, capaci di ascoltare c capire la cultura contigua, in una delicata opera di trasformazione. In Color Purple il tema è il mondo negro delle donne in America, battute ma forti, maltrattate ma coraggiose, spinte indietro ma piene di fantasia, umiliate ma così creative che oltre ai bambini sanno mettere al mondo con un'energia senza limiti fantasia, colore, persino l'immaginazione di Dio. Poiché questi due film — che sono anche tecnicamente «grandi film», cioè produzioni ampie e costose e che vengono subito segnalate agli spettatori dal montaggio lento, dalla cadenza fortemente ritmata dei rumori e delle musiche, dai grandi spazi lasciati ai paesaggi e ai movimenti di camera — sono usciti fianco a fianco, ed è impossibile non parlarne insieme. Ossi li vedono infatti gli americani che pazientemente fanno la coda a migliaia davanti ai moltissimi cinema dove si programmano i due film. Rappresentano l'impegno del cinema americano di rispondere alla televisione respingendola nei suoi piccoli limiti, sottolineandone la sua angustia culturale che sarebbe espressa dal piccolo schermo, bollando anche la sua penuria di grandi sentimenti. Questi film aspirano alla coincidenza fra grandezza fisica, grandezza tecnica e gran¬ dezza morale. Non tutti i aitici li hanno assecondati, ma il pubblico (e la giuria degli Academy Awards) sembra non avere dubbi: certamente le tre cose coincidono, e certamente questo significa un clamoroso ritorno al «grande cinema». Jerzy Kosinski ha detto che fra «grande» e «buono», fra dimensione e valore, resta una differenza importante. Ma Kosinski è un autore «cattivo», autore di opere «controverse» e poco pacificanti, dunque non fa testo nel genere. John Podhoretz, sulla rivista Imight, ha scritto che Color Purple serve a placare le ansie dei buoni e dei liberal, ma non dice niente della vita dei negri. C'è la letteratura alle spalle degli Oscar, quest'anno, e l'industria del cinema è decisa a ricordarlo a ogni passo. Karen Blixen non solo e la protagonista di grandi e inattese ristampe, ma è diventata personaggio stabile dei rotocalchi americani come se avesse deci so l'altro ieri di stabilirsi in Kenya. Si alternano biografie su Peopk Magazine (che riesce a trattare i morti come celcbrirà del momento) a immagi ni della sua casa (quella vera < quella del film) sulle riviste di architettura. Alle spalle di Color Purple c'è il romanzo dallo stesso titolo di Alice Walkcr grande testo americano e libro fra i più grandi della letteratura negra. Il credito incassato dal film — e il decoro letterario che da questo libro sarà attribuito alla serata degli Oscar — ha messo del tutto in om| bra l'altro argomento: che rap¬ porto cè fra il romanzo e il film? Aspre polemiche sono esplose intorno alle due pellicole. Ma l'eco non si sentirà a Hollywood, perché sono annegate nel senso di grandezza che circonda l'impresa. La mia Africa, è stato detto da voci credibili (per esempio Arthur Schlesinger), è una bella storia (anche se non è bella come il libro della Blixen). Però manca la Storia. Tutto nel film appare sospeso come se esistesse un'organizzazione che le vacanze non solo te le fa fare altrove, ma te le fa fare in un altro tempo. Il riconoscimento della bravura straordinaria di Meryl Streep è di tutti, dal critico più difficile, come John Simon, al grande pubblico. Ma proprio la straordinaria bravura, di voce, di gesti, di accento della Streep-Blixcn fa sentire il vuoto del tempo. I coloni sono comparse, la guerra mondiale un pretesto, la realtà di un insediamento europeo, ne! cuore intatto dell'Africa, solo una serie di illustrazioni. I leOni passeggiano come in un circo, e l'immensa cura di ogni dettaglio è cura di scena, che non dà luogo alla vita, anche se l'effetto delle illustrazioni bellissime è spesso grandioso. La mancanza della storia rende impossibile per il pubblico conoscere davvero il caso Blixen, donna che avanza prima del tempo in un terreno che dovrebbe esserle precluso, rende gradevolmente bizzarro il suo senso di indipendenza, e «simpatico» tutto ciò che in lei era coraggiosamente e disperatamente diverso. La sua malattia —che pure è sifilide — nel film ha i toni romantici di una bella tubercolosi fine di secolo, qualcosa che strema e abbellisce, un tocco di malinconia e un'accentuazione del vivere soli. Senza il sostegno della Storia, Robert Redford rimane il solito se stesso, sano e di bella presenza, un americano di oggi, non un inglese espatriato di allora, e la sua armoniosa ambientazione nella natura sa di National Geographic più che di coraggiosa separazione dalle etichette del tempo. L'attore che ha dato vita al Candidalo e a The Saturai (tratto dall'omonimo libro di Bernard Malamud, appena scomparso) qui resta un personaggio conosciuto che tutti rivedono volentieri in tenuta da caccia. Il risultato è quasi un film d'avanguardia, dialogo fra un uomo d'oggi e una donna di allora, fra una donna che ha — per bocca della Streep — il controllo delle battute che ha scritto la Blixen, e un americano gentile che la intervista oggi, dopo che la riscoperta della natura e dell'autonomia delle donne sono diventate gradevoli luoghi comuni. Il problema. sollevato da Color Purple è molto più serio, ma anche su questo la macchina della grande produzione del cinema sembra capace di stendere un velo. Si dice — e in America si è detto anche ad altissima voce — che l'occhio di Spiclbetg guarda ai negri del suo film come ha guardato a £. T. o ai mostri delle sue guerre stellari. Con affetto, con bravura, ma da una distanza infinita. Si dice — e questo ha scatenato una furiosa polemica nella polemica — che il rapporto fra uomini e donne, nel film, è tagliato con la mano pesante dei grandi effetti semplificanti, non con l'equivalente visivo del linguaggio denso e poetico di Alice Walkcr. Si dice persino, e sarà forse un argomento discutibile, che un uomo bianco non poteva assumersi l'impegno di presentare in dettaglio notizie sul rapporto difficile fra uomini e donne negre dopo la schiavitù, famiglie senza tradizione e senza radici nel Sud americano, al principio di questo secolo. Nei momenti più aspri della polemica, il nome che è venuto fuori più spesso, per lodare la fattura del film, ma anche per indicare il limite clamoroso, è Walt Disney. Questi negri pregano, sognano, cantano, si prendono a schiaffi e fanno tutto con la famosa esuberanza della gente di colore appassionata nella preghiera, spensierata nella festa e molto «naturale» nell'ira, anche quando uccide. Era cosi datato il femminismo di Alice Walker nel libro? 11 problema del giovane Spielberg sembra l'aver perduto il trasformatore della grande scrittrice negra, la sua cultura, il suo- orecchio, il suo essere donna che scrive, oggi, e racconta di allora, con la voce delle donne negre che l'hanno educata. Tutto ciò, ci accorgiamo, è compensato dal «grande». Lo schermo, la produzione, gli effetti, la maestosa lentezza delle sequenze, la musica. E' una formula che non sarà facilmente dimenticata: molta tecnica, buone intenzioni e una cornice ampia, che suggerisce spazio, tempo e danaro. Sarà premiata. E, come sempre accade, avrà figli. Belli, «nobili» e molto lontani dalla vita. Furir/Colombo Meni Streep in una scena di «La mia Africa» tratto dal libro di Karen Blixen: il cinema americano torna alla grande letteratura Woopi Goldberg col regista Steven Spielberg durante le riprese di «The Color Purple»