A scuola di tetraggine con l'Imam di Robert Fisk

A scuola di tetraggine con l'Imam Sangue, morte, martirio nei sillabari dei bambini iraniani A scuola di tetraggine con l'Imam In aula con lo chador sin dalle elementari - Gli alunni-delatori - Un Paese ormai rassegnato NOSTRO SERVIZIO TEHERAN — Ai vecchi tempi, i bambini delle elementari in Iran imparavano la grammatica su un sillabario che insegnava a ripetere: «Babà ab dad, maman nan dad», papà ci ha dato l'acqua, mamma ci ha dato il pane. A Teheran è uscita una nuova edisione del libro, con nuove frasi. Ora dicono: «Babà khoon dad, maman jan dad», papà ha dato il suo sangue, mamma ha dato la sua vita. In Occidente, questo si chiamerebbe lavaggio dei cervello. All'inizio degli Anni Ottanta gli -alunni della rivoluzione- venivano istigati a diventare piccoli delatori. C'erano maestri che arrivavano in classe con una bottiglia piena di liquido giallognolo, e con un'etichetta nota. Ai bambini più volonterosi — ma poco avveduti — che alzavano la mano per dire: whisky!, l'insegnante domandava se avessero visto quella bottiglia a casa. Adesso, da i o : n , A a e à , , i o a e i — : a a quando l'opposizione politica della media borghesia è stata liquidata, c'è un po' meno rigore. In una casa dei quartieri settentrionali della capitale, una donna sfoglia lentamente le pagine dell'album di famiglia. Indica la foto di un bel giovane con una camicia scura. «Era all'opposizione — ritee semplicemente — l'hanno arrestato. E ucciso». Il ragazzo pare tornare in vita mentre la donna parla, proteso verso l'obiettivo, un braccio attorno alla spalla della sorella, l'altro, amorevolmente, su quella della madre. «Lei non si è mai data pace», dice. La figlia guarda la foto in silenzio. Avrà cinque anni. Una bimba vivace e allegra con soffici capelli bruni e un sorriso da fatina. «A scuola — spiega la madre — porta lo chador». E poi: «Fereshteh, fatti vedere come sei quando vai a scuola». Fereshteh corre nella sua camera e ne torna come in lutto, in nero da capo a piedi, i capelli invisibili sotto la palandrana, il faccino tondo che sorride assurdamente da quel gran buio. All'improvviso si fa seria, e se ne torna adagio nella sua stanza, per tornare a essere una bambina. Sette anni dopo la rivoluzione c'è una sorta di rassegnazione, anche da parte di chi non riesce a capire perché tutto questo. Un ingegnere civile, al lavoro lungo una ferrovia, parla mettendo lunghi silenzi tra le parole, cerca di capire che cosa lo separi tanto dai suoi connazionali. «Non seguo — dice — tutta questa gente che dice di voler morire. Non li riconosco più. Che cosa ho da dire a questa gente?». «Questa gente- non fa mistero dei suoi desideri. Mentre arranchi nel fango verso il fiume Kenar, dove il ponte di chiatte finisce nell'acqua, dietro la linea del fuoco iraniana, ti propinano prediche sul martirio, sulla promessa del Paradiso, sul loro vantaggio spirituale e morale nei confronti dei nemici dell'Iran. Credono davvero, nel modo in cui i pili fanatici riformatori religiosi credevano nel XVI Secolo. Indicano il cadavere di un soldato iracheno tagliato a metà da un razzo. Alla mano, una fede matrimoniale. «Ecco che cosa faremo a Saddam Hussein», dice uno. Nulla di originale nelle sue parole. «Non mi piace questo schifoso governo — afferma un assistente universitario — ma appoggio questa guerra contro Saddam. Ha invaso il mio Paese, gliela faremo pagare». Il discorso si allarga, include l'Occidente nell'elenco dei nemici dell'Iran: «Non odieremmo l'America se tanti di noi non fossero stati uccisi durante la rivoluzione. L'America manovrava lo Scià, ora manovra Saddam». Robert Fisk Copyright «Times Newspapcrs» e per l'Italia «La Stampa»

Persone citate: Saddam Hussein

Luoghi citati: America, Iran, Italia, Teheran