Chirurghi tra i capolavori

Chirurghi tra i capolavori SCARNIFICAZIONI DELL'800 E RESTAURI DI OGGI Chirurghi tra i capolavori Chiunque abbia una pur minima esperienza delle cose d'arte sa bene che il più grave rischio cui esse vanno incontro è di capitare tra le mani di un restauratore cattivo o inesperto. Una statua, benché sfregiata e mutila, resta sempre leggibile, e la sua qualità risulta anche in condizioni frammentarie (i marmi del Partenone insegnino). Ma cosa dire delle sculture che, rinvenute dal Quattro al primo Ottocento, sono state sottoposte non solo a un completamento, ma alla rilavorazione a scalpello della loro epidermide? In taluni casi (che abbondano nelle più vecchie raccolte d'Europa) non si riesce nemmeno a comprendere se si tratti di originali greci o di copie romane, oppure di imitazioni rinascimentali o barocche: tutto è sciolto in un unico solvente di anodino accademismo. Un dipinto può bene esserci pervenuto allo stato di frammento, ma anche pochi centimetri quadrati di epidermide intatta ne consentono l'attribuzione e la corretta valutazione. Non così per i quadri passati attraverso incaute puliture, nei quali l'intera pelle originaria è stata scorticata: il capolavoro del Beato Angelico, la grande pala di San Marco a Firenze, venne nettata con una sostanza caustica (forse cenere) e oggi è una larva, nella quale è lecito vedere soltanto lo schema compositivo, sì che, ove fosse l'unico prodotto ri mastoci dell'artista, ben diffi cilmentc se ne potrebbe dedurre l.i sua statura eccelsa. L'insensato principio del ripristino di chiese e monumenti profani ha provocato, nel secolo scorso, danni assai maggiori di quanto non abbiano fatto, nel nostro, le bombe piovute indiscriminatamente, e per anni, sull'Europa. Edifici indenni dalle devastazioni belliche ci si presentano mutili e rovinati, in modi irreparabili: caso tra i più gravi e quello del Duomo di Orvieto, giunto intatto sino alla metà dell'Ottocenti i poi sottoposto a un radicale raschiamento, che eliminò tutto quanto era nato dopo una certa epoca. Gasa spingeva a imprese del genere, spesso assai ardue, lunghe e costose? Sotto un pretesto estetizzante (quello cioè di riportare l'edificio al pristino splendore) esse rispondevano a uno dei temi fissi della restaurazione e della reazione: tema fondato sul mito di un Medioevo visto non più nella sua complessa dialettica di idee e di contrasti, ma come un'epoca tranquilla, socialmente calma, perché esseri zialmcntc religiosa (il contrario cioè di quanto era accaduto con la Rivoluzione Francese, e il cui seguito si avvertiva nei fermenti posteriori al Congresso di Vienna). A Orvieto, il post quem da annientare fu il periodo tra il Cinque e il Settecento: venne così allontanata la splendida Annunciazione di Francesco Mochi, assieme alle dodici statue monumentali degli Apostoli, compresa un'opera del Giambologna. Tutti questi marmi (tra cui capolavori indiscutibili) vennero relegati nel pian terteno del Soliano, un edificio attiguo al Duomo. Irrimediabile danno fu invece la demolizione degli altari sontuosi che si susseguivano nelle due navate minori: se ne salvarono le pale (oggi nel Museo dell'Opera), ma stucchi e affreschi vennero spietatamente annientati, con l'unico beneficio di ritrovare al di sotto gli avanzi frammentari di qualche intonacò dipinto tre e quattrocentesco, -quel tipo di reperti, cioè, che fa sobbalzare di gioia certi stotici dell'arte ma che in nessun modo può ricompensarci dei solenni complessi stupidamente vanificati. Forse qualche decennio addietro l'interno del Duomo di Orvieto non suscitava quella triste impressione di cadavere senza storia che oggi provoca in chi concepisce l'opera d'arte non come un quid avulso dal contesto sociale e religioso in continuo svolgimento, ma come qualcosa di vivo, ben diverso, nel caso specifico, dalla mummificata immagine ste¬ reotipa di un Medioevo da favola. Se dipendesse da me, non esiterei un istante a ricollocare al loro posto i dodici Apostoli marmorei e, soprattutto, la stupenda Annunciazione di Francesco Mochi; per quest'ultima, una proposta in tal senso è stata avanzata, trovando gravi ostacoli nella Curia Vescovile (che, evidentemente, resta ancorata a taluni schemi estetico-mentali vecchi di quasi due secoli). Il Duomo di Orvieto è ora sottoposto a una radicale e accurata opera di consolidamento e restauro da parte della Soprintendenza di Perugia; e molte parti sono risultate in condizioni di grave fatiscenza e di progressivo deperimento. C'è da augurarsi che i molti problemi che riguardano la conservazione e la sopravvivenza di taluni importantissimi'dementi non vengano deviati e complicati da certe prese di posizione, giustissime in senso astratto ma erronee nella concreta prassi del restauro. Sarebbe folle il voler inventare statue e rilievi in stile da porre sulla facciata del Duomo; ma altrettanto insensato è lasciare a una rapida agonia i bronzi, guastissimi e corrosi dall'età e dall'inquinamento atmosferico, situati nella lunetta del portale maggiore, intendo cioè quell'«»/'f«OT costituito dalla Maestà della Vergine col Bambino e gli Angeli. Buoni calchi potrebbero sostituire questo capolavoro, nonché i simboli dei Quattro Evangelisti e alcune statue, tra cui un magnifico San Michele quattrocentesco che, visto da vicino, fa tremare per la sua sorte. Gli originali andrebbero collocati nel Museo dell'Opera; ma qui si tocca un punctum dolem tra i più acuti dell'intera situazione italiana. Ricco di opere di sommo valore, il Museo dell'Opera del Duomo di Orvieto ha costituito, per lunghi decenni, uno scandalo intollerabile: chi non ricorda il grande salone al piano superiore del Soliano con i piccioni svolazzanti tra tele del Lanfranco e del Muziano, scacazzanti sul polittico di Simone Martini, con gli inestimabili disegni del Trecento divorati dai tarli, ccn meravigliosi intarsi lignei dell'antico coro avviati allo stato di segatura (molti altri pezzi ne giacciono, chissà in quali condizioni, negli scantinati)? Nell'ultimo decennio la situazione è andata migliorando: esiste (su spinta di Carlo Ludovico Ragghianti) un catalogo della raccolta e da parte sua la Soprintendenza di Perugia è intervenuta nei casi più urgenti. Ma una singolare, imprevedibile minaccia incombe sul Museo dell'Opera: il dono dello scultore Emilio Greco. Questi ha lasciato al Comune di •'Orvieto un gruppo delle sue opere, tra cui 18 bronzi, 8 gessi originali, una cinquantina di disegni (oltre a terrecotte, medaglie e 10 fogli di francobolli eseguiti su suo progetto). Senza voler entrare nella valutazione dell'opera di Emi lio Greco, non c'e dubbio che il dono, una volta accettato, debba venir disposto e ordinato nei modi dovuti; ma da questo a suggerir lo sfratto del Museo dell'Opera, con i suoi Simone Martini, i Maitani tutto il resto, ce ne corre. Eppure, una proposta del genere è stata avanzata e, sebbene respinta dal Comitato di settore, continua a circolare sotterranea. Si vorrebbe, in altre parole,.-relegare altrove le opere del Musco, sfoltendole ,con> una scelta, e gettando il rimanente in un qualche magazzino. Tra l'altro, il dono è stato fatto al Comune, cui spetta il dovere di trovare una soluzione adeguata, e al più presto. Non ci sarebbe tuttavia nulla di sorprendente se la scelta peggiore dovesse alla fine venir realizzata; qui da noi si assiste spesso a una vera e propria perdita dell'identità culturale, il cui primo sintomo è l'indifferenza verso il passare, e per tutto quanto tese un tempo celebre e illustre l'Italia. Federico Zeri ^^^^^ Gentile da Fabriano: particolare dell'affresco con la Madonna e il Bambino dopo il recente restauro (Orvieto. Duomo)

Persone citate: Emilio Greco, Evangelisti, Federico Zeri, Greco, Ludovico Ragghianti, Maitani, Simone Martini

Luoghi citati: Europa, Fabriano, Firenze, Italia, Orvieto, Perugia, Vienna