Fondaco dei trucchi

Fondaco dei tmcàà\s SI CHIUDE IL CARNEVALE A VENEZIA Fondaco dei tmcàà\s VENEZIA — Battello per Rialto, verso sera: gente insonnolita, abbattuta dal maltempo e dall'acqua alta. Qualcuno spalanca la porta: un sussulto, è la Morte. Sibila il; nome d'una fermata, sparisce. I A me verrebbe voglia di tirarle addosso qualcosa; ma un, paio di appisolati si tirano su,; contenti che sia arrivata. Altre fermate, ed è sempre lei, fianchi tondi, teschio magro: «Gì' di dio», «Accademia», «Rialto». Il battello si svuota: E tu?, mi chiede, lo filo a casa, ho sgobbato .tutto il giorno. No, no — mi scruta —, qui bisogna stringere i denti: perfino negli anni delle guerre coi turchi, ci sono stati i più bei carnevali. Altri tempi — dico. Ma ora — soffia — c'è solo questo tempo. Un lampo, e mi trovo una barbetta toncjg appiccicata all| faccia, un colbacco in tèsta, occhialini sul naso. E adesso chi sono? Milan Kundera — ride —; un'imitazione, certo, non hai la leggerezza. Scendiamo, eccoli: sbucano dalle calli, sgorgano dai ponti, volano sui canali dove è appena passata la marca: ballerine, rambi, remagi, Duràn-Duràn, turchi, tedeschi, generici, maschere astratte e minute, concrete e ridicole, pallide e crudeli. Secondo me, il solito carnevale. Non il solito — ribatte il mio teschio —: quest'anno, se sei giovane, sei condannato a correre, temporali o no, su e giù tra campi e campielli, senza fermarti mai; se invece sei vecchio... si vedrà, mi saprai dire. Svanisce. Mi incammino tra sciami d insetti giganti e torme impigrite di dromedari: e mi viene in mente — la Morte ha ragione — che quest'anno il centro di Venezia, Piazza S, Marco e dintorni, è occupato dalle nuove «illusioni»: Caffè Orientali c Occidentali, ricostruzioni c scenografìe: roba per vecchi-ricchi, viva il turi smo d'oro. Gli altri, in giro; senza Piazza, senza perno. E in più sotto l'acqua. Leggo i cartelloni sui muri tutta una lista di «spazi» per giovani c simili: ma non dicono che la piazza grande tabù, giardino proibito. Mi av< vio verso San Marco, a dare un'occhiata. Calli strettissime invase da squadroni di ghed' dafi, improvvisi, uguali, spa ventosi. Svoltano, e restano ì muri solitari: bagnati, splendi di. Nello spazio vuoto avanza no costumi del Settecento, im peccabili, lenti, remoti. Nessuno mi bada, il mio travestimento non va. Giro o 'angolo: un canale immobile, sulla riva i resti dell'ultima mareggiata: butto via tutto anch'io? Non mi lasciano il tempo: sbucano comparse di tutti i colori, mi prendono in mezzo, non mollano, girogirotondo fin sulla riva, sull'orlo 11 posto quieto è a un passo: la chiesa infilata tra le case. Portone spalancato: esce uno squadrone di diavoli. Dentro, donne allo specchio, seminude, in calzamaglia; dalla cripta salgono sulle mani antichi car dinali, gorgogliano, fumano. La chiesa dei travestimenti, fóndaco dei trucchi: tra le Madonne impassibili, ragazzi ne in adorazione di angioloni estetisti con grandi dita di pennelli. Uno mi fulmina: E tu? lo sarei Kundera. Ride come un matto: ti hanno preso un .-intellettuale. Mi strappi li. barfja, nii toglie colbacco, via il paltò. Mi studia: tu sei un giocatore al pai Ione, uno di quelli di Rosseau mezza età, coi baffi... Metti questo, pantaloni a mutanda, maglia a cerchi, un bel paio di mustacchi. Mi spedisce 11 di fronte, verso quella montagna 'i muri. E' la famosa Abbazia, ogg Società di Karaté. Entro, corri doi senza fine, scaloni polverosi, sventolìi di draghi. Non c'è un'anima, ma i muri rimbom bano: nel minicortile tra le case, concentrazione delle maschere-giocatori, uno schiamazzo infernale, tutti gli sport, calcio-pallacanestro-pallavolo, tutti insieme. Urla del popolo: finalmente un giocatore vestito da giocatore — che sarei io. Provo con la pallacanestro, per via d'una bella ragazzonabruco che non sbaglia un tiro; e finalmente capisco: non c'è il canestro, fanno «oh» come se ci fosse. Dalle case attorno, dalle infinite finestre, escono facce inviperite: «oh» urlano tutte al momento giusto. Andiamo via — dico al mio bruVia dove? — fa lei. Mi guarda, sorride: ho la barca qui fuori, mi cambio, aspettami. Eccola: ma cos'è diventata, metà gondoliera e metàMetà Caronte — sussurra. Sbatte gli occhietti di fuoco, agita un barbone fitto di serpenti. In barca per i canali; ma neanche pensare di starle vicino, con quei peli sul mento — ci sarebbe la luce giusta, quasi buio. Luce da acquario — fa lei, come se mi sentisse, L'acquario confonde le voci, i volti, i movimenti: vorrei ter' ra solida, ora, sotto i piedi — e lei mi scarica, pronta, su una maledetta riva scivolosa. Sulla riva mi dà una mano... proprio lui, Kundera. Barba, colbacco, faccia, occhialetti — si è appropriato tutto di me. La mia gondoliera, via di volata; mentre il maestro: Ma perché — esclama — perché un carnevale qui, dove già esiste ogni libertà e il divieto è inesistente. Perché — provo — siamo tutti nell'ac quario, dentro fino al collo — e intanto col terzo occhio la cerco per l'ultima volta, la ca rontina fuggente. Lui si arrabbia: Senti, ami' co, io sono Kundera, sai chi è? SI lo so: ero io; ma dove vuoi arrivare. Dico che il car nevale — riattacca — dovreb bero farlo in qualche altro po- ga, a Mosca» —, dove libertà ce n'è poca. Però anche qui, pare a me, non ce n'è mai abbastanza — e intanto mi viene dubbio: costui è Kundera sul serio. Ma neanche Venezia gli va: Qui non c'è nienti: né carri, né sfilate: che carnevale è questo? G siamo noi — ribatto noi maschere facciamo tutto. Appunto — fa lui —, niente. Però dev'essere proprio uno scrittore: non ha immaginazione, ha bisogno dei carri. Rimbombo improvviso, sghignazzi, folla minacciosa: ci spingono contro il canale, quasi ci affogano... Mi salva un portone socchiuso, l'andito d'un palazzo, Traverso il giardino, e mi tro ve in una piazza mai vista. Ma S. Marco, con le sue nuove «illusioni»: la Piazza truccata, da chissà quali angeli. Calma irreale tra i vecchiotti de Caffè, nei recinti di maschere ricche: certi costumi dogali, fi nita la pioggia, mandano luce come mosaici. Ma un tam-tam vicino-lontano circonda la Piazza da ogni parte, le maschere d'oro entrano in agitazione, le exbcllc stagionate scattano felici: le bande dei giovani stanno mettendo l'assedio ai Offe, progettano l'invasione. Corro a vedere: sugli spalti verso i giardini una folla di maschere appena scampate, sembrano, dalla marca. Non vedo segni di assedio; solo un teatrino, 11 su quel ponte ammuffito: lo spettacolo comincia. Un buffone grinzoso, orrendo, in piedi su una gran botte lucente, scambia battute d'amore con una Katia giovane come nei sogni, allungata sulla spalletta del ponte: ma a ogni battuta lui cala sempre più dentro, la botte pian piano si spegne, mentre lei si spoglia sempre di più: inutilmente, perché poco per volta, addio, il vecchietto è sepolto. Non sono molto contente le maschere d'oro, dopo la corsa fin^ù* dalla Piazz#Wifc| •un personaggio sui trampoli;*] altissimo, lunare, spiega che è solo una vecchia commedia, niente riferimenti a luoghi e persone. Non vi piace la fine? Bene, per Carnevale vi facciamo sognare: il buffone-vecchietto risale pian piano dalla sua botte e anche lei, Katia, si arrampica su un filo invisibile su su tra gli applausi fino alla luna che aspetta, verso l'incredibile leggerezza delle prime stelle. Peccato che non ci sia il nostro Kundera: è «niente», come si diceva; ma un'allegria commossa sgorga dal ponte sgangherato, confonde i luoghi e le età. Paolo Barbaro 1 - . "' - JLt m": X <-■< ' I Venezia. Due dei sci lampadari che illuminano Piazza S. Marco

Persone citate: Barba, Battello, Caronte, Kundera, Milan Kundera, Paolo Barbaro

Luoghi citati: Mosca, Rialto, Venezia