I rubinetti del dollaro

I rubinetti del dollaro Pace armate dopo il consulto dei Cinque I rubinetti del dollaro I ministri del Tesoro e i banchieri centrali sanno. per esperienza che meno parole usano e meglio e: quello che dicono viene, infatti, interpretato da abilissimi scrutatori che da Zurigo a Singapore, da Wall Street a piazza degli Affari cercano di trarne oracoli attendibili per puntare sull'una o l'altra moneta, spostare capitali dal dollaro al marco e viceversa, in un continuo sommovimento che non conosce soste, 24 ore su 24, attraverso migliaia di terminal che mai si spengono. Cosi, anche, si spiega la tacitiana conclusione — 54 parole in tutto — del comunicato che ha concluso il vertice finanziario di Londra, una concisione che ha spinto taluni osservatori a giudicarlo un fallimento. Analisi, peraltro, alquanto frettolosa poiché la dichiarazione, solo apparentemente ovvia, secondo cui Stati Uniti, Giappone, Germania Federale, Francia e Inghilterra convengono sul fatto «che il progresso ottenuto non debba essere capovolto» ha, purtuttavia, un significato preciso e affatto trascurabile. Esso si riferisce alla svolta che alla precedente riunione del 22 settembre a New York segnò il passaggio dalla filosofia della noncuranza («è il mercato che fìssa il giusto va lore delle monete»), fino alla vi gilia inalberata dalla ammini strazione Usa, ad una azione concordata per pilotare al ribasso il corso del dollaro, che è appunto sceso da allora del 15%. Naturalmente nelle vicende valutarie le gioie di un giorno si inducono sovente in dolori il giorno dopo; ed europei e giapponesi hanno cominciato a temere che la discesa divenga troppo rapida e addirittura rovinosa, sia perché la capa cita concorrenziale delle merci americane risulterebbe eccessiva grazie ad un dollaro troppo basso, sia perché una svaluta' zionc traumatica comporterebbe un riesplodere dell'inflazione in America e, quindi, una stretta monetaria e susseguente crisi recessiva per l'economia mondiale. Del resto proprio la previsione di una ulteriore svalutazione del dollaro nei confronti del marco spiega i movimenti di capitali delle ultime settimane, di cui ha fatto le spese anche la nostra lira, D'altro canto, poiché per smorzare le pulsioni ondivaghe delle valute non bastano certo gli interventi calmieratoli delle Banche centrali, taluni governi si erano fatti interpreti dell'esigenza di agire anche sul terreno di una diminuzione concordata dei tassi d'interesse. Questa proposta, avanzata in primo luogo dal Giappone, si è scontrata con l'opposizione americana e in particolare del 'governatore Volcker. Questi tra una discesa dei tassi e del dollaro, che renderebbe più appetibili i prodotti Usa, e il pericolo di distogliere troppo velocemente dal mercato americano i capitali internazionali, pur sempre decisivi per finanziare un deficit di bilancio di 200 miliardi di dollari, propende evidentemente per una oscillazione attorno al cambio attuale. Gioca, inoltre, in questa scelta la constatazione che l'economia d'Oltreoceano non è affatto in fase di stanca e comincia a notarsi una qualche tensione sui prezzi (inflazione al 4%), così da sconsigliare la Riserva federale da un allentamento delle difese. Il rifiuto di ridune i tassi d'interesse potrebbe, di contro, innestare una nuova tendenza al rialzo del dollaro: di qui il senso di quella frasetta sulla necessità di intervenire «per non capovolgere» i risultati ottenuti. Ciò detto resta irrisolto il nodo di fondo: lo squilibrio commerciale americano — pari a 140 miliardi di dollari l'anno — e il deficit del bilancio pubblico non potranno essere affrontati solo agendo più o meno accortamente sul cambio. La consapevolezza di questa insensata situazione si é fatta strada nell'opinione pubblica statunitense e si é tradotta nella legge Gramm-Rodman che impone una riduzione automatica del 20% l'anno di tutte le spese statali, militari comprese, fino all'azzeramento del deficit nel 1990. Questa ritrovata vocazione a mettere ordine in casa propria, se coerentemente applicata, dovrebbe facilitare il coordinamento finora carente delle politiche economiche internazionali, che il mancato accordo sui tassi a Londra, puntualmente, dimostra. Una divergenza che s'inserisce nel contenzioso che vede-Germania e Giappone sordi al sollecito americano per una politica di rilancio economico che li faccia subentrare nella funzione di locomotiva fin qui svolta dagli Stati Uniti. Bonn e Tokyo, che hanno ridotto i loro deficit pubblici a livelli infimi, temono qualsiasi iniziativa che alteri la loro specchiata contabilità. Sarà questo l'argomento centrale del prossimo vertice di maggio dei sette Paesi più industrializzati e qui i due esclusi da Londra — Italia e Canada — potranno dimostrare l'incongruità di un ostracismo intermittente che avrebbe un motivo di essere se le riunioni finanziarie fossero limi tate solo ai tre Paesi che davvero contano sul piano monetario (Usa, Germania e Giappone) e se la nostra Banca centrale non fosse chiamata anch'essa a concorrere, come è avvenuto negli ultimi mesi per ben 2 miliardi di dollari, a stabilizzazioni dei cambi decise in nostra assenza. Mario Pironi

Persone citate: Gramm, Mario Pironi, Rodman, Volcker