LEO VALIANI E L'AUSTRIA-UNGHERIA

L'Impero a pezzi LEO VALIANIE L'AUSTRIA-UNGHERIA L'Impero a pezzi Aveva diciassette anni neanche compiuti, a Fiume, quando gli giunse quel libro di Salvemini edito da Piero Gobetti, quasi alle soglie della partenza da Torino, a metà del 1925, dal titolo: Dal patto di Londra alla pace di Roma. Un libro di quasi quattrocento pagine, stampato all'indomani del 3 gennaio e del giro di vite della dittatura, dove tutto era un atto di coraggio: l'autore, già perseguitato dai fascisti e cacciato dalla cattedra fiorentina, il tema, il testo, che riassumeva tesi e suggestioni di quelli che la retorica nazionalfascista aveva bollato come «/' rinunciatari». E non a caso libro che faticò a circolare, che alimentò i veti e i falò fascisti. Quel ragazzo, a Fiume, si chiamava Leo Valiani. Futuro «nome d'arte», che nascondeva una realtà complessa e segreta di quelle minoranze ebraiche dell'Impero austro-ungarico, dove il senso della tolleranza e del pluralismo era alimentato da singolari intrecci razziali (la madre, bosniaca, lontana nipote di Teodoro Herzl), sullo sfondo di quello straordinario «crogiuolo» di esperienze e di civiltà pluri-nazionali che era rappresentato dal porto di Fiume. Un ragazzo che, nato nel 1909, aveva avuto modo di assistere alla «reggenza», sospesa fra Medioevo e Rinascimento, di Gabriele D'Annunzio sul Carnaio e di ascoltare le sagre e le orazioni del poeta, adolescente spettatore di una delle prime «guerre civili» della storia italiana (con le forze armate ubbidienti agli ordini della monarchia costituzionale, per l'ultima volta prima dello strappo del 28 ottobre), fino e oltre i limiti del Natale d sangue. Un ragazzo curioso e libero, che cercava i «perché» del dramma, della dissoluzione dell'Austria-Ungheria, della decomposizione dell'antico Impero, cui aveva assistito. Un irrompere di nazionali smi «particolaristici» al posto di quel tentativo secolare di equilibri e. di cor^vjvenza,. coj stituito daila corona di Vienna e poi dalla corona «dualistica» di Vienna e di Budapest. Le contraddizioni e gli' equivoci della «piccola intesa». I rancori degli sciovinismi non placa' ti ma anzi alimentati dal trionfo del principio di nazionalità: ungheresi contro romeni, polacchi contro ceki, la stessa comunità jugoslava, ri petute le cesure e le separazioni dell'epoca austriaca. «/ governi che ressero quei Paesi in condizioni di rara indivendenza, fra 1918 e 1939, non si rivelarono, a dire il vero, più lungimiranti, o anche solo più ragionevoli del defunto governo austro-ungarico». ..Così scrive Leo Valiani nel libro che da quell'incontro . con Salvemini, di sessantanni fa, prese le mosse, e che scandì, si può dire, le fasi complesse e avventurose della vita straordinaria del suo autore: La dissoluzione dell'AustriaUngheria. Un libro che ritorna adesso, accresciuto e riveduto, a' distanza di ventanni, nella gloriosa collana di un editore cui si rivolge il nos <. com mosso pensiero, editore che ha esercitato un suo ufficio di rottura e di iniziativa, Alberto Mondadori, in quella collana, che fu essenziale per una generazione, del «Saggiatore», Vcnt'anni: in realtà molto di più nel periplo intellettuale di Leo Valiani. Un libro d: storia — come avveniva nel Risorgimento — alimentato dalla passione politica e dalla testimonianza civile. Quel ragazzo di Fiume, nel '28 iniziò una battaglia ininterrotta contro la dittatura fascista che lo portò a vivere, in posizione di protagonista, l'esperienza, tutta' risorgimentale, dell'esilio. Negli anni parigini, fra 1937 e 1938, allorché Leo era redatto ré della Voce degli italiani di Luigi Campolonghi (il cogna to di Bissolati) e di Giuseppe Di Vittorio, l'incontro con grandi biblioteche francesi,- e con i maestri della Sorbona, e con gli storici europei, in particolare con Elia Halevy, che alla crisi mondiale a Londra aveva dedicato un corso di lezioni straordinario e illuminante. In quell'epoca nacque una prima stesura di questo libro, che non ha mai visto la luce. Dedicata essenzialmente alla crisi di Lenin vista dall'Ungheria. Un manoscritto che Valiani consegnò, prima della fuga da Parigi, a Franco Venturi, l'animatore dei «Quader¬ ni di giustizia e libertà», nella linea della grande tradizione paterna (quel nome di Lionello Venturi, che nella mia infanzia affiorava dalla biblioteca di mio padre, quasi tutta dedicata alla storia dell'arte, con quelle vecchie, straordinarie edizioni, senza che io potessi capire il dramma di quella parabola, di quella famiglia!). Venturi riuscì a salvare quel manoscritto e a riconsegnarlo dopo il '45 al compagno di battaglie politiche e civili. Ma Valiani, gtande storico nonostante l'indipendenza dalla cattedra, lo ritenne superato. Si dedicò a «riscavarc» tutta la materia negli archivi taliani (allora erano inedite tutte le carte Sonnino, Albertini, Bissolati) e negli archivi austriaci, tedeschi, più tardi francesi e inglesi. Con un lavoro nutrito, insieme, da una pazienza certosina e da una aica, intrepida devozione. Il risultato sono queste cinquecento pagine più vive oggi di vent'anni fa. Uno storico della diplomazia austriaca, come il Pribram, amava dire che per ripercorrere la straordinaria vicenda della corte di. Vienna, di quell'impero plurinazionale, fondato su una rigorosa amministrazione e anche sulla tutela di taluni fondamentali diritti, occorreva la comprensione di quattordici lingue, «lo ne conosco solo sette»,' mi dice Valiani, con quell'occhio lampeggiante in cui brilla un raggio di Herzl, una luce dell'antico profetismo ebraico, «e le sette sono: italiano, francese, inglese, tedesco, serbocroato, ungherese e spagnolo. Mi manca il ceko e il polacco. Il russo lo leggo con l'aiuto del dizionario...». La storia degli estremi tentativi per preservare quello straordinario mosaico di popoli è consegnata alle pagine odierne. E anche la storia delle grandezze e miserie della politica italiana, ondeggiante fra una visione nazionale chiusa e un po'.orgogliosa;(JàJirjja.di S^nnino^ cipè^della Consulta) e Te "maggiori ^aperture oli ' Orlando, nutrite più dal disastro di Caporetto che dalle proprie convinzioni. Fino. alla svolta del patto di Roma: quel grande manifesto europeista e democratico dell'aprile 1918 che blocca i sinuosi tentativi fran¬ co-inglesi di salvare l'Impero (a scapito dell'Italia è delle stesse clausole del patto di Londra) e getta le basi di una linea che non sarà perseguita né con convinzione né con coerenza, la linea della solidarietà fra Italia e Jugoslavia. Stupisce di trovare, fra i nomi dei giornalisti propagandisti del patto di Roma, insieme con Amendola e con Borgese, Benito Mussolini. Nove mesi più.tardi, l'il gennaio 1919, Mussolini avrebbe guidato l'operazione di fischi alla Scala contro Bissolati e i «rinunciatari». Inizio dell'avventura fascista. In breve tempo tutti gli schemi dell'interventi smo erano stati rovesciati. E la dissoluzione dell'Impero austro-ungarico preparava anche (per un singolare paradosso del destino) la dissoluzione dello Stato liberale in Italia. E l'età dei nazionalismi sfrenati non solo al di là, ma anche al di qua delle frontiere adriatiche. Giovanni Spadolini