Tornai a Stoccarda e piansi sulla Germania

Tornai a Stoccarda e piansi sulla Germania Tornai a Stoccarda e piansi sulla Germania Pubblichiamo, per concessione della Feltrinelli, alcune pagine di «Storia di un nomo» di Fred Uhlman. Nel primo brano l'autore rievoca la sua visita In Germania dopo la guerra, nel secondo racconta l'incontro t» Londra con Sir Henry Croft, suo futuro suocero. QUASI tutti i miei amici nel partito furono arrestati e spediti nei campi di cancentramento. Al cuni furono picchiati, ma nel complesso la violenza politica nel Wurttemberg fu minore che in altre parti della Germania, dove i nazisti potevano finalmente realizzare la Nacht der langen Messer, la notte dei lunghi coltelli, che avevano a lungo sognato. Io rimasi a Stoccarda per altri dieci giorni, dormendo spesso fuori casa, ma andando regolarmente in tribunale... con una rivoltella in tasca. Tutti erano sorpresi che 10 fossi in libertà e non mancavano di farmelo notare. Del resto, il più sorpreso di tutti ero io. Il 23 marzo, mi telefonò Pazaurek. Aveva visto Dill, un giudice con il quale ero sempre stato in ottimi rapporti e che ora, con mio grande stupore, si rivelava per quello che era da tempo, cioè un membro del partito nazista Dill gli aveva detto: «Se vede Ulmànnle (il piccolo Uhlman) gli dica da parte mia che ora Parigi è bellissima. Sottolineo: ora». Era fin troppo chiaro. Riempii una valigia con le prime cose che mi capitarono tra le mani, presi un po' di soldi, e, senza avere neanche 11 tempo di salutare i genitori, saltai in macchina Fu cosi che lasciai la mia patria e la città dove ero nato e avevo passato trentadue anni della mia vita. D'ora innanzi la lingua in cui avevano scritto e parlato Goethe, HOlderlin e Moericke mi sarebbe stata straniera, come i laghi, le foreste e le antiche città circondate da mura del Wurttemberg Per me, le fontane avrebbero taciuto per sempre. Ero troppo felice per essermela cavata per provare il dolore del distacco, e lo ero tanto di più perché fuggivo da un incubo. Come un soldato gravemente ferito ma felice di essere vivo, fu soltanto più tardi che mi resi conto della ferita... Quando, dopo la guerra, tomai a Stoccarda, mi senni come uno straniero, la città non era un grand cimilière sous la lune in cui io mi aggiravo, fantasma tra i fantasmi. Le finestre, che un tempo si erano aperte per me, ora erano deserte. Io aspettai, ma nessuno si fece avanti. Mi recai al cimitero ebraico e, dopo aver girovagato a lungo, trovai la tomba che ero venuto a cercare: la tomba di Lina Uhlman, nata Elsas, mia norma, che èra stata tanto buona con me. Ero venuto anche per i miei genitori e per la mia povera sventurata sorella, ma le loro tombe — semmai saranno esistite — erano lontane, lontanissime in un qualche posto tra Belsen e Auschwitz. Ero distrutto. Piansi come non avevo mai pianto prima di allora e come spero di non piangere mai più. Adesso avevo cinquantanni. Piansi sulla mia famiglia assassinata, sui miei amici morti, sui miei ricordi inveleniti, sulle migliaia e migliaia di ebrei a cristiani massacrati. Piansi sulla Germania Piansi sulle rovine di tante belle città antiche, che avevano fatto da sfondo alla mia gioventù. Piansi sulla speranza e la fede perdute, piansi sull'evanescenza e la mancanza di significato della vita. Ero fuori di me. Mi misi a urlare a squarciagola: «Assassini! Assassini!» sulle tombe abbandonate, senza fiori, e la mia voce era piena di odio perché al di là della siepe che separava la parte ebraica del cimitero da quella cristiana, potevo vedere le tombe ripulite dalle erbacce e tutte in ordine. Quando ritornai in città, mi sentii completamente sperduto. Sì, certo, i danni erano stati terribili, ma io avevo dimenticato tutto, GLI uffici dell'Empire Industries Association erano al secondo o terzo piano di uno squallido palazzo in mattoni dell'epoca vittoriana Bussai e fui immediatamente introdotto in presenza di Sir Henry. Era un > bell'uomo, grande e grosso, che mi sovrastava di almeno una ventina di centimetri, il che mi fece sentire ridicolmente piccolo. Era impeccabilmente vestito, indossava un Savile Row blu, ma quello che mi colpi di più fu la sua carnagione fresca, rosa e il viso infantile, segno di ottima alimentazione e di una vita all'aria aperta Bastava un'occhiata per capire che ci si trovava davanti a un uomo che aveva avuto una vita sana, ricca di successi, e che era abituato a comandare, essere rispettato e ascoltato. Era un uomo che metteva subito soggezione, capace di gelarti con un'occhiata. Mi pregò di sedermi e mi offrì una sigaretta. Non eravamo soli perché Sir Henry, a differenza di sua figlia, cosi dotata, parlava soltanto inglese, per cui, parlando io soltanto francese e tedesco, era necessario un interprete. (Non ricordo il suo nome, ma era un amico di Sir Henry e un membro del Parlamento). Dopo un attimo di silenzio, l'interprete apri le danze. In perfetto tedesco mi spiegò che era — e qui tossi — piuttosto — un altro colpo di tosse — imbarazzato a dovermi fare delle domande sulla mia vita privata, ma, dato che era mia intenzione sposare la secondogenita di Sir Henry, quest'ultimo aveva tutto il diritto di sapere qualcosa dell'uomo che voleva diventare suo genero. A questo punto io interruppi l'intèrprete e gli dissi che non avevo obiezioni di sorta Sir Henry aveva non soltanto il diritto ma anche il dovere di fare tutte le domande che riteneva necessarie, e io sarei stato felicissimo di rispondere. L'interprete- sembrò molto sollevato. Dopo aver tradotto quello che avevo detto,' mi disse che Sir Henry aveva preparato un questionario e un riassunto della storia della sua insigne famiglia Prima di passare al questionario, Sir Henry desiderava che io mi facessi un'idea della sua famiglia, partendo dalle origini. L'interprete si mise allora a leggere la prima parte della storia della famiglia Croft, che iniziava cosi: La famiglia Croft è una delle più antiche famiglie d'Inghilterra probabilmente di origine anglosassone e già menzionata nel Domesday Book. (Cosa? mi chiesi). I Croft hanno dato alla nazione molti vescovi, statisti e soldati. Uno di di essi, Sir James, fu amministratore della Casa reale sotto la regina Elisabetta I, un altro... e così di seguito, ma, ahimè, ho dimenticato il resto della parte storica del mio interrogatorio. A questo punto fu la volta di una sfilza di domande, di cui ne ricordo alcune del tipo: «Perché ha lasciato la Germania?» «Per ragioni politiche», fu la mia risposta. «Soltanto politiche?» «SI, soltanto». Qui Sir Henry s'interruppe per dire che non era il primo caso di cui era venuto a conoscenza. Per esempio, il suo amico Bruning se n'era andato per ragioni politiche. E poi ancora «E' al suo primo matrimonio?» «Quanto può guadagnare un artista?» «Quanto ha da parte?» «Qua! è la professione di suo padre, e quanto è disposto a investire su di lei?' (Qui dovetti farmi ripetere la domanda dall'interprete, perché mi sfuggiva il significato) Quando capii che si trattava di destinare per me un fisso annuale, gli spiegai che era molto improbabile che nel 1936 Hitler autorizzasse simili trasferimenti di denaro. Fred TJlhman