Tre ambasciatori per un'alleanza di Sergio Romano

Treambasciatori per un'alleanza COSI' L'ITALIA SCELSE L'OCCIDENTE: DOPO 40 ANNI ECCO I DOCUMENTI Treambasciatori per un'alleanza Fu Quaroni, da Parigi, a proporre nell'aprile del '48 la nostra adesione al Patto Atlantico che si andava formando Brosio, da Mosca, era invece per la neutralità - Tarchiani da Washington: «Un impossibile equilibrio tra i due blocchi preluderebbe a un capitombolo» - Settimane di discussioni con Sforza: uno studioso ha ora riesumato quegli atti /I trattato della Trìplice Alleanza fra Austria; Germania e Italia fu firmato a Vienna il 20 maggio 1882, ma dovette passare un anno prima che l'opinione pubblica italiana avesse notizia della sua esistema; e dovettero passarne trentotto perché il suo testo venisse pubblicato. La cosa non sorprese nessuno perché le allearne militari erano, per definizione, segrete e i governi, quando erano in discussione i rapporti internazionali del Paese, avevano il diritto di non raccontare nulla o quasi. Confrontato alla Trìplice, il Patto Atlantico — l'altra grande alleanza militare a cui l'Italia ha partecipato nel corso della sua storia unitaria—è una casa di vetro. Il trattato fu negoziato con 'fughe» e indiscrezioni d'ogni genere tra la fine del '48 e la primavera del '49, e fu pubblicamente firmato a Washington il 4 aprile del 1949 durante una cerimonia a cui parteciparono tutti i miniatri degli Ssteri dei Paesi membri. Con uno di quegli anacronismi di cui la storia è ghiotta, Carlo Sforza, che era entrato in diplomazia cinquantacinque anni prima, firmò per l'Italia, se non ricordo male, imprimendo sulla ceralacca il sigillo del proprio anello nobiliare. Se la stampa non dette alla cerimonia tutta l'attenzione che essa meritava, la colpa è della storia che decise di concentrare in quei mesi più avvenimenti di quanti non ne accadano abitualmente in parecchi anni. Nel gennaio Acheson aveva sostituito Marshall alla segreterìa di Stato, Truman aveva pronunciato il suo discorso inaugurale e Ciang Kai-Scek, sconfitto da Mao, aveva rinunciato alla presidenza della Cina. Nel marzo Vyscinski) aveva sostituito Molotov, la Francia aveva riconosciuto il Vietnam non comunista, l'Italia e la Francia avevano firmato un'unione doganale. Poche settimane dopo Israele entrerà all'Onu, Bonn diverrà capitale di un nuovo Stato tedesco, i sovietici interromperanno il blocco di Berlino e Mao proclamerà a Pechino la Repubblica Popolare di Cina. Nessun giornale aveva tanti inviati speciali Quanti sarebbero stati necessari per tener dietro in quei mesi all'accelerazione della storia. Del Patto Atlantico, prima alleanza politico-militare firmata e negoziata in condizioni di massima pubblicità, do- a o i iremmo Quindi sapere tutto. In realtà i governi che parlano non sono meno reticenti dei governi che tacciono. Perché l'Italia decise di aderire al Patto? Perché un Paese che un anno prima, durante la campagna per le elezioni del 18 aprile, appariva genericamente neutralista, potè, in dodici mesi, modificare radicalmente la propria politica estera? Le ragioni di quella decisione non sono nel giornali dell'epoca che della vicenda colsero principalmente le giustificazioni ufficiali e le informazioni interessate dei protagonisti. Esse sono sepolte negli archivi della Presidenza del Consiglio, del ministero della Difesa e soprattutto del ministero degli Esteri. Ne escono ora grazie a una appassionante ricerca di Brunello Vigezzi, direttore del Centro di politica estera e opinione pubblica dell'Università di Milano, il quale ha riportato alla luce un blocco di lettere e telegrammi scritti dai protagonisti della diplomazia italiana fra l'aprile e l'agosto del 1948. Si possono leggere, insieme a un bel saggio di Vigezzi (la. politica estera italiana e le premesse della scelta atlantica. Governo, diplomatici, militari e le discussioni dell'estate 1948/ in un volume che appare in librerìa in questi giorni: La dimensione atlantica (Milano, Jaca Book). Il lettore vi troverà anche saggi di Giuseppe M. Longoni sulla politica degli imprenditori, di Massimo de Leonardis sulla politica britannica, di Lorenzo Cremonesi su Israele, di Aldo Albonico sull'America Latina. La storia di cui Vigezzi ha ritrovato le fila comincia a Parigi nell'aprile del 1948. L'ambasciatore italiano si chiama Pietro Quaroni, ha Quarantotto anni e ha alte sue spalle una carriera movimentata. Allontanato da Roma alla fine degli Anni Trenta su ordine di Ciano per aver scritto un articolo •sgradito», è stato ministro a Kabul per sette anni e ambasciatore a Mosca dal '44 al '47. Ha la penna facile, ma angolosa, con una certa noncuranza per le •buone maniere» del linguaggio diplomatico. Riferisce a Sforza di avere avuto lunghe conversazioni con funzionari francesi — fra cui Couve de Muratile, che era allora direttore degli affari politici — sulla possibile partecipazione dell'Italia al Patto occidentale che era stato firmato a Bruxelles il 17 marzo tra Gran Bretagna, Francia, Olanda, Belgio e Lussemburgo. Conoscendo lo stile di Quaroni e la sua spregiudicatezza non sono del tutto sicuro che le conversazioni si siano svolte esattamente nel modo da lui riferito. Conosceva bene il mondo, ma ancor meglio i tentennamenti della classe politica italiana e sapeva che ogni tanto occorreva forzarle la mano rappresentando la realtà con qualche opportuna esagerazione. Si era convinto che ■ l'Italia doveva smetterla di esitare fra le molte soluzioni teoricamente possibili. Per Quaroni ve n'era una soltanto: aderire esplicitamente al blocco occidentale che si andava gradualmente costituendo sotto la guida degli Stati Uniti. Delle conversazioni con l francesi egli si valse per introdurre l'argomento e aprire il dibattito. Il ministero raccolse la provocazione. Anziché seppellire il rapporto di Quaroni nei fondi di un archivio lo mandò a Brosio, ambasciatore a Mosca, e a Tarchiani, ambasciatore a Washington, perché lo commentassero. Quaroni che era stato trasferito a Parigi. A Mosca, dove arrivò nel febbraio del '47, si mise a imparare il russo e avviò i primi contatti con i sovietici in condizioni che stavano diventando ógni giorno più difficili. Ma aveva un progetto molto chiaro a cui lavorò tenacemente per alvino due anni: voleva convincere il governo italiano e il governo sovietico che la migliore soluzione possibile per l'Italia — nel suo interesse e in quello dell'Europa — era la neutralità. L'Italia apparteneva all'Occidente, politicamente e economicamente, ma questo non doveva impedirle di fare con l'Urss una politica di amicizia. Brosio non aveva la penna graffiante di Quaroni e le sue lettere a Sforza erano sempre redatte con cortesia piemontese, ma aveva te idee chiare e uno straordinario rigore morale. Con fermezza vestita d'uno stile un po' avvocatesco, egli scrisse a Sforza il 28 aprile 1948 che l'Italia poteva e doveva fare una politica di neutralità. La replica di Quaroni, il 2 giugno, fu di una spregiudicatezza che rasentava la brutalità. I nostri rapporti con l'Urss, scrisse, dipendono dai rapporti russo-americani e «noi siamo altrettanto liberi di riavvicinarci alla Russia, come la Polonia di riavvicinarsi all'America». Restare neutrali era possibile quando l'umanità era meno «virtuosa» e si faceva la guerra «onestamente» per interessi concreti. Ma oggi, in una situazione in cui la guerra è «guerra della virtù contro il vizio, del bene contro il male», la neutralità è diventata un «crimine». Se noi la proponessimo ai sovietici «potrei divertirmi a scrivere, fin da adesso, la nota di risposta di Molotoff (...)». avremmo difeso la nostra neutralità se non con armi che avremmo dovuto chiedere agli Stati Uniti? «Sono equilibri impossibili che preludono a capitomboli; specie in periodi storici (...) in cui posizioni politiche esasperate non ammettono (...) atteggiamenti di lunga incertezza che possono far nascere sospetti di doppi giochi». Sforza dette una prima risposta il 14 luglio. Si limitò a constatare che il Paese era amareggiato e frustrato. Come chiedere all'Italia, in quelle condizioni, di aderire a uno schieramento militare che l'avrebbe esposta maggiormente agli attacchi dell'avversario? Chi le garantiva che sarebbe stata difesa? La conversazione a cinque (vi partecipò anche Gallarati Scotti, ambasciatore a Londra) continuò per alcune settimane. Brosio sosteneva che la neutralità italiana poteva giovare a tutti, anche agli americani; Tarchiani che non era più possibile rinviare una decisione; Gallarati Scotti che alla nostra neutralità non avrebbe creduto nessuno; Quaroni che, di questo passo, saremmo andati incontro a una crisi col mondo occidentale e che dopo aver fatto la crisi «ce la dovremo rimangiare». «Faremo due fatiche, concludeva, quella di arrabbiarci e quella di disarrabbiarci». Intervenne, a un certo punto, anche il capo di stato maggiore, generale Trezzani, per fare lapidariamente tre osservazioni: la neutralità disarmata era un «assurdo»; la neutralità armata era possibile solo con le armi degli americani; se gli americani non ci davano le armi non ci restava che «far parte integrante del blocco occidentale o mettere l'avvenire d'Italia nelle mani del caso e della fortuna». Sforza concluse il dibattito alla fine d'agosto. Apparentemente cercò di allontanare il momento della scelta osservando che la soluzione del problema dipendeva dall'America. Avrebbe potuto, in caso di conflitto, garantire le nostre frontiere? Ci darà nel frattempo le armi necessarie per la nostra difesa? Chiese a Tarchiani di porre quelle domande al governo di Washington e aggiunse, pesando le parole: «Ove si incontrassero favorevoli e comprensive disposizioni di massima non avremmo difficoltà ad avviare con Washington conversazioni tecniche per l'esame della nostra situazione difensiva». Cominciava, con i passi di piombo della diplomazia, un negoziato politicomilitare che si sarebbe concluso sette mesi dopo con la firma del patto atlantico. Sergio Romano