La colpa tedesca di Ernesto Galli Della Loggia

La colpa tedesca GLI STORICI E IL NAZISMO La colpa tedesca Non è facile capire perché proprio in Italia più che in qualsiasi altro Paese del monaci, se non sbaglio, abbia avuto tanta eco la Historikerstreit, cioè la discussione accesasi due anni fa con inusitata violenza nella storiografia tedesca a proposito del nazionalsocialismo, dei suoi caratteri genetici, della natura dei suoi crimini e delle sue conseguenze sull'identità nazionale della Germania. Non aedo che da nessun'altra parte, ad esempio, si sia trovata una casa editrice pronta a tradurre e pubblicare i testi principali della controversia come ha fatto in Italia Einaudi per merito di Gian Enrico Rusconi (Germania: un passato che non passa), e che altrove quotidiani e settimanali abbiano dato al dibattito tedesco uno spazio e un'attenzione paragonabili a quelli che ha avuto da noi. Sono convinto-che la spiegazione di questo interesse così vivo vada ricercata nel fatto che, anche se in modo non esplicito, il centre vero della discussione aperta a suo tempo da Habermas con il suo feroce attacco a Nolte in realtà non riguarda tanto il giudizio etico-politico sul nazionalsocialismo (condannato con eguale ripugnanza da tutti gli intervenuti), quanto piuttosto quel paradigma essenziale di tutto il nostro universo ideologico che è il paradigma destra/sinistra. Ora è vero, naturalmente, che tale paradigma vige più o meno in tutti i Paesi di cultura occidentale, ma è anche vero che esso si è posto e si pone in maniera assai più stringente e drammatica per quei Paesi — come appunto l'Italia e la Germania — che hanno avuto un'esperienza di tipo fascista. Un'esperienza di questo tipo, infatti — cioè di una destra in versione totalitaria — ha contribuito potentemente ad assegnare a uno dei due termini'un carattere di negatività assoluta, per effetto del quale i due termini stessi sono stati posti dalla coscienza comune in una relazione ùi perentoria contrapposizione, di radicale reciproca estraneità/ostilità. L'elemento decisivo è stato quello della violenza, della sua conclamata istituzionalizzazione nel regime, sia in quanto violenza fisica pura e semplice nei confronti del «nemico», sia in quanto riduzione arbitraria dei diritti politici e civili dei cittadini: una violenza che arrivò con il nazismo ai vertici della pianificazione sterminatrice. Tutto ciò ha fatto si che uno, e uno solo, dei due termini del paradigma — quello storicamente operante nella realtà nazionale — si stereotipizzasse come sinonimo di negatività. Esattamente la stessa cosa è avvenuta, e avviene, nei Paesi dove si è avuta l'esperienza, anziché di una destra, d'una sinistra in versione totalitaria, cioè nei Paesi comunisti. Anche qui la coscienza comune, quando può esprimersi liberamente, come nel caso de' dissidenti, è portata ad altri buire al termine del paradigma di cui ha fatto nazionalmente prova un carattere negativo assoluto. Con la medesima tendenza all'unilateralità che nell'altro caso. Proprio intorno alla problematizzazione della dicotomia destra-sinistra — colta nel momento della sua apparentemente massima estensione qual è espressa dalla coppia nazismo/bolscevismo, che ne rappresenta al tempo stesso il massimo risultato di violenza — ha ruotato in sostanza tutto il colloquio tra storici italiani e tedeschi organizzato nei pri mi giorni di questo mese dal Goethe-Institut di Torino, sotto il titolo «Quale passato per quale futuro?». Era presente colui che sulla via di tale problematizzazione si è di certo spinto più oltre, fino cioè a trasformare la dicotomia in un nesso corposissi mo, vale a dire Ernst Nolte. A Torino ha avuto modo di ribadire le sue tesi, difendendole da quella sorta di demonizzazione che spesso anche in Italia se n'è fatta. Nolte vede nel fascismo e nel bolscevismo (che egli distingue dal comunismo) i proragonisri di una vera e propria guerra civile europea che si sarebbe aperta in seguito al fallimento del progetto liberale ottocentesco. In tale guerra civile sarebbe stato ip1pcddvrcdqsfmGtlubchsppg il bolscevismo a introdurre perlomeno operativamente, nel 1917, le due novità decisive per l'epoca: quella del «nemico assoluto», sotto la specie del nemico di classe, e quella dello sterminio di massa; novità che poi, per reazione, sarebbero state fatte, proprie anche dal fascismo, in particolare dal nazionalsocialismo. E' in questo sènso, dunque, che si spiega e si giustifica la sua affermazione «il Gulag viene prima di Auschwitz». Anche al colloquio del Goethe-Institut una simile interpretazione, che individua l'origine e insieme la sostanza ultima del nazismo nell'antibolscevismo, ponendo in secondo piano l'antisemitismo, ha suscitato polemiche e discussioni vivaci. Ma, bisogna dire, vivaci soprattutto tra i colleghi tedeschi di Nolte. I quali, facendo sfoggio di un'invidiabile propensione alla dietrologia, e muovendosi lungo un'ampia gamma di reazioni — da quella un po' ruvida e aggressiva di Wolfgang Mommsen a quella più accorata e quasi patetica di Christian Meier — sono partiti all'attacco fin dalle prime battute, puntando a quello che a essi e sembrato e sembra il riposto intento (o, se non altro, effetto) relativizzante, e dunque giustificatorio e assolutorio, dell'impostazione di Nolte. Dietro gli scambi di battute, aspre seppur nei limiti sempre di una formale correttezza, si sentiva senza fatica la pervadente preoccupazione politica per l'oggi, la necessità di fare intorno al nazismo una sorta di terra bruciata, l'irresolubile e torturante questione della «colpa tedesca», l'angoscia morale e civile dell'interrogarsi sul rapporto tra la storia della Germania < il mostro che essa ha partorì to. Saggiamente, sebbene con scarsi risultati, gli storici italiani presenti hanno cercato di togliere all'incontro questo carattere di seduta autocoscienziale tedesca, riportandolo alla sua natura di dibattito storiografico. Si è visto, in una circostanza del genere, quale vantaggio, quale risultato di libertà psicologica, culturale, innanzi tutto dia a noi Italiani il fatto che nel nostro passato ci sia, oltre il fascismo, la Resistenza. Un vantaggio e una libertà psicologica forse anche eccessivi, ha osservato qualcuno, ricordando il disinvolto oblio in cui abbiamo fatto cadere i nostri crimini di guerra (che ci furono: e non pochi); una libertà culturale che ai Tedeschi deve essere apparsa strabiliante quando hanno sentito Renzo De Felice tirare in ballo le oggettive responsabilità nello sterminio degli Ebrei della politica rooseveltiana della resa incondizionata, o gli aspetti di effettivo tradimento dell'alleato che ebbe la condotta italiana dopo il 25 luglio. Che questo approccio più libero al passato non voglia dire attenuazione del giudizio etico, anzi l'opposto, l'ha ricordato la relazione di Massimo Salvadori. I crimini nazisti — ha detto — non sono stati unici e incommensurabili, bensì la manifestazione estrema, l'ultimo gradino di una scala costituita dalle manifestazioni della violenza nella storia. Considerare il nazismo essenza peculiare della vicenda storica tedesca, rivelazione della sua vera natura da luglio in avanti, equivale a sottosai vere, sia pure con un segno ideologico rovesciato, l'abusiva appropriazione di tutto il passato della Germania che compivano i seguaci di Hitler. Non solo, ma una simile visione delle cose alla fine non può che mettere capo, inconsapevolmente o meno, all'idea di-una sorta di «dannazione» dei Tedeschi, assai vicina una concezione razziale della storia. Viceversa un giudizio etico" non strumentale deve avere il coraggio di analizzare il fondamento comune, indubbiamente esistente, tra la poli tica di annientamento razziale perseguita dal nazismo e quella di annientamento di classe dello stalinismo (anche se ciò non significa avallare l'idea del nazismo come antibolscevismo cara a Nolte). E' ai sistemi politici e sociali che vanno attribuite le colpe e le responsabilità: altrimenti per riprendere le stesse parole di Salvadori, «entriamo in un tunnel ambiguo, torbido, in quello delle colpe indiscriminate dà popoli, del passato che per alcuni non passa mai, delle memorie storiche che valgono per questo ma non per quello». Ernesto Galli della Loggia

Luoghi citati: Germania, Italia, Torino