Casalegno e il nostro Stato di Carlo Casalegno

Casalegno e il nostro Stato DIECI ANNI DALL'AGGUATO MORTALE DELLE BRIGATE ROSSE Casalegno e il nostro Stato Saranno dica anni, domani, dall'attentato mortale a Carlo Casalegno: il primo dei cittadini di questa nostra Repubblica che sia stato assassinato per le sue idee, apertamente professate. Quando, a sei mesi dalla sua morte, fu scoperto a Torino un covo delle Brigate rosse, vi si rinvennero, accuratamente ritagliati, decine di suoi articoli. Per questo, solo per questo, fu ucciso, con la viltà di tanti altri agguati, sempre diretti a colpire i migliori: giornalisti come Tobagi, giudici come Amato, Alessandrini, Galli, avvocati come il mitissimo Fulvio Croce, poliziotti e custodi carcerari, gente semplice, umana, rivile, servitori onesti e fedeli dello Stato. Su questi fatti atrori, comincia a stendersi una coltre d'indifferenza e di oblio. Chi pensa ancora al dolore delle madri, delle mogli? Una riflessione va fatta Io ritengo (e l'ho, detto più volte) che sia giunta l'ora di «uscire dall'emergenza», di modificare certe norme di legge imposte dall'infuriare del terrorismo di allora oggi' sconfitto, di sottoporre a un vaglio critico certe dilatazioni del concetto di «concorso morale», e soprattutto di porgere una mano a tanti giovani che si sono lasciati sobillare da cattivi maestri, da ideologi da strapazzo, da rimasticatori di vuote formule; e che verso tutti, dico tutti, i reclusi si adottino misure di clemenza previste anche dalla legge Gozzini, e non si soffochi quel barlume di umanità che anche nei più colpevoli possa essersi riacceso. Ma tutto questo a patto che non si alteri il significato di quel che allora è accaduto, e non si confonda ciò che va tenuto ben distinto. Oggi, dentro e fuori del carcere, c'è chi parla quasi con sussiego professorale di «conflitti sociali», di «lotta armata, che, legittima o illegittima che si voglia considerarla da un punto di vista storico, è politicamente e militarmente sconfinai). Dal che si vorrebbe dedurre la necessità di una «globale soluzione a sanzione della chiusura definitiva di un ciclo storico». Non posso non obiettare che, se anche nella storia di questi ultimi quarant'armi si sono avuti tanti segni di «sclerosi della democrazia», quei delitti restano delitti — assurdamente stupidi oltreché ignobili — quale che fosse il contesto politico-sodale che li attizzò o li favor). Non possiamo ridurli a espressione, sia pure sporadica ed Carlo Casalegno estrema di un movimento oggi sconfitto. Senza l'accettazione di questa premessa nessun discorso serio è possibile, almeno da parte nostra Non facciamo, per carità, di quel terrorismo una nuova Resistenza sia pure fallita un moto di popolo. Certamente dobbiamo considerarlo nel contesto di quegli anni, e analizzarne le radici: ma senza indebite confusioni. Questa distinzione, anzi questa antitesi fra la nuda farneticante, ottusa barbarie e qualsiasi spontaneo fenomeno di riscatto nazionale o sodale animò sempre gli scritti che il nostro amico, ucciso dieci anni fa, pubblicò su La Stampa. Quest'uomo avitissimo, assetato di cultura appassionato indagatore di tanti problemi politici in Italia e nel mondo, dotato di senso della storia (e qui ricordiamo soltanto la biografia della regina Margherita il Risorgimento familiare, le ricerche purtroppo incompiute sull'anglofobia e su Pio IX), amava il dibattito, il dissenso; cercava di persuadere gli altri, specialmente i giovani, di capirli, di convertire in chiarezza di propositi la loro confusa ansia di giustizia. Detestava l'enfasi, il fanatismo, l'odio, l'estremismo; e non gli importava che per questo gli dessero del «conservatore», del «reazionario», del «codino». In realtà, puntava sempre sull'equilibrio della ragione. Di fronte ai problemi della scuola era contro la «demagogia dell'indulgenza»; quanto ai rapporti fra Stato e Chiesa si professava laico a oltranza ma non anticlericale: virino, anche in questo, alle idee di Ruffini, Jemolo, Salvatorelli. La sua ultima e coraggiosa battaglia di opinione, che gli costò la vita fu contro il terrorismo: del quale vide subito tutta la pericolosità, ma anche l'inconcludenza politica, la totale mancanza di prospettive e di sbocchi se non distruttivi. «Possono solo uccidere — diceva tragicamente presago —, ma politicamente sono già sconfìtti». Combatteva i cedimenti e le capitolazioni, le morbide reticenze, le ambigue distinzioni fra la violenza «buona» e quella «cattiva»; ma esortava a non perdere la testa a guardarsi dalle repressioni cieche e dalle leggi speciali. Soprattutto, si batté per la difesa di questo Stato, nato dalla Resistenza. Ne vedeva con lucidità tutte le debolezze, le magagne, le degenerazioni. Oggi, di fronte a tanti deplorevoli aspetti della nostra vita pubblica Casalegno sarebbe ancora più impietoso e severo. Ma io sono certo che farebbe sue le parole scritte nel 1947 da Emesto Rossi, l'uomo che aveva speso il meglio della sua vita fra carcere e confino: «io che, come intellettuale, ho ancora fiducia nella ragione quale uno dei fattori determinanti della storia degli uomini, sono disposto ad affrontare tutte le difficoltà, a fare tutti gli sforzi per aiutare a rimettere in piedi la sconquassala baracca dello Stato. Perché questa baracca sconquassata, questo straccio di repubblica, nonostante tutto, oggi è la nostra Repubblica». A. Galante Garrone

Luoghi citati: Italia, Torino