Baia dei Porci, vecchi fantasmi di Mimmo Candito

Baia dei Porci, vecchi fantasmi CENTRO AMERICA. A 30 ANNI DALLA Baia dei Porci, vecchi fantasmi Nel '61 su questa spiaggia di Cuba dovevano sbarcare gli americani: sbarcarono invece solo gli esuli - Sulla «prima sconfitta dell'imperialismo » il regime mobilita ancora gli animi - Ma Castro, premuto dall'economia inceppata, lancia a Washington segnali di pacificazione - Venticinque anni fa, la crisi dei missili: ora si scopre che tra russi e cubani vi furono dissensi e persino spari DAL NOSTRO INVIATO BAIA DEI PORCI — Sulla spiaggia dove nel HI dovevano sbarcare gli americani ma arrivarono solo gli esuli da Miami, oggi c'è un villaggio turistico e un piccolo museo bianco, fatto di foto ingiallite e di ricordi. San cinque ore d'auto, e la strada che ci arriva dall'Avana ha questi ultimi chilometri marcati dal cippi funerari. La battaglia durò due giorni, ogni metro di terra venne difeso e attaccato con l'asprezza di chi Si gioca tutto. Le palme ora fanno un'ombra rada al sole abbacinante, e di fronte all'acqua del Caribe che per 90 miglia lo separa dall'America un tabellone proclama trionfante che «Baia dei Porci è la prima sconfitta dell'imperialismo». La seconda non è ancora arrivata, ma a Cuba fanno mostra di aspettarla ogni giorno con una mobilitazione degli animi che il regime si preoccupa di tenere costante, fervida, calorosa, agitando il fantasma dello sbarco yanqui. In quei primi Anni 60, i rapporti tra Cuba e gli Usa erano aspri ma ancora fluidi. Il Dipartimento di Stato spingeva per cancellare questa inconcepibile distorsione nella continuità geopolitica della dottrina Monroe, e tuttavia un certo clima internazionale di distensione, e l'arrivo di Kennedy alla Casa Bianca, avevano creato qualche incrinatura nella condanna definitiva del castrismo. Che a molti sembrava ancora un regime ben lontano da quell'etichetta di comunista appiccicata troppo frettolosamente dai falchi delle università della West Coast. Oggi Fidel, premuto da un'economia inceppata, dal bisogno delle tecnologie, da una crisi di gestione che paga costi troppo elevati, guarda a Washington e alla nuova amministrazione, che spera democratica; e lancia segnali di una qualche pacificazione: la Baia dei Porci, dice, fu un'operazione che Kennedy ereditò da Eisenhower, i democratici ne ebbero una responsabilità relativa. Ma per trovare un momento più serio e più drammatico del lungo scontro (Kennedy nel '61 non concesse la copertura aerea dello sbarco, e si sganciò presto dai gusanos di Miami), bisogna viaggiare a molti chilometri da qui, spingendosi nelle foreste che chiudono la punta nordorientale dell'isola. Laggiù, 25 anni fa, si stava costruendo la base missilistica del- l'Urss; e le foto che il maggiore dell'Air Force Rudolph Anderson aveva scattato dal suo U-2, il 15 ottobre, avevano aperto la più grave, forse, delle crisi tra l'Est e l'Ovest del nostro pianeta in tutto questo tempo. Tanto più grave perché una serie di documenti segreti, americani e sovietici, fatti conoscere in questo mese ha rivelato un risvolto imprevisto negli avvenimenti concitati di quei, giorni; e hariportato Cuba e Castro alc\sntró dì unmiso' dio ché'ffhòra era invéce apparso come un braccio di ferro esclusivo tra Kennedy e Kruscev. La crisi esplose pubblicamente nell'annuncio a sorpresa che il presidente americano fece alla tv il 22 ottobre, comunicando al suo popolo il blocco navale dell'isola. Già da una settimana, e comunque fino all'alba del 28, fino al momento cioè nel quale Kruscev informa Washington che l'Urss accetta di ritirare i missili da Cuba, la strategia diplomatico-militare di Kennedy era basata su una convinzione che ora invece pare fosse errata: che il controllo delle batterie degli SA-2 Sam era nelle mani esclusive dei sovietici. E quando, il mattino del 27, un missile aveva tirato giù un aereo-spia, un U-2 guidato dallo stesso maggiore Anderson, la Casa Bianca ne aveva tratto il convincimento che Mosca fosse pronta alla battaglia. Scrisse Robert Kennedy in una pagina di Thirteen Days, le sue memorie postume: «Sentimmo quel giorno che il cerchio si chiudeva su tutti noi, sull'America ma anche sul mondo intero, e che ormai i ponti per tornare indietro sul nostri passi si erano sbriciolati». Venticinque anni fa quel giorno cadeva di sabato, e la storia americana lo ricorda per sempre come il suo black saturday. L'U-2 viene abbat tuto alle 10,12 del mattino. Alle 6 del pomeriggio Robert Kennedy convoca l'ambasciatore Anatoly Dobrynin e gli trasmette l'ultimatum di Washington: o i missili vengono ritirati entro 48 ore, o il mattino del 30 ottobre, martedì, giorno di San Germano, gli Usa attaccheranno Cuba «Ognuno di noi, scrisse ancora Kennedy, venne chiamato a una scelta che avrebbe coinvolto l'intera umanità». A sorpresa però, dodici ore dopo l'ultimatum, la flotta sovietica in navigazione verso l'isola inverte la rotta e si allontana definitivamente dall'area del blocco navale. McNamara nel '63 commentò al Congresso quella decisione: «Kruscev sapeva scn z'ombra di dubbio che l'alternativa era di scontrarsi con tutta la potenza militare degli Stati Uniti, compreso il suo armamento nucleare» a quel tempo gli Usa avevano cinquemila testate nucleari contro le trecento del IVrss. Oggi si può dire che a motivare quella decisione furono altre circostanze. La decifrazione del codice segreto, Il Silver, usato dai russi nelle loro comunicazioni militari. ha fatto conoscere i messaggi che la base sovietica di Banes scambiò con Mosca per tutto il tempo della crisi: dalla loro lettura si scopre che, nella notte del 26 ottobre, ci fu una piccola battaglia attorno alla base Losangeles che ospitava le batterie dei Sam; e che il comandante di questa base, il maggiore Mal'tsev, comunicava di aver avuto tre morti e quindici feriti. Daniel Ellsberg poi, quello dei Pentagan Fa.pers, ha fatto conoscere'altri documenti rl&rvdtt'ae'fl'am'ministrazione americana, soprattutto due note del segretario di Stato di quel tempo, Dean Rusk; nel memorandum si legge che il segretario dell'Onu U Thant aveva appreso all'Avana, il 30 ottobre, in un colloquio con l'ambasciatore sovietico e col comandante della base missilistica, il generale Statsenko, che «1 Sam erano manovrati da cubani», e che «era stato un colonnello cubano ad abbattere vu-z.. L'anniversario di quei giorni, a Cuba non viene nemmeno ricordato. Carlos Franqui, nelle sue memorie sui primi anni del regime, racconta la i r : e e ne er ei, s, oioeo, no pe, aoio, ti to breui, mi la , l a e i i e e reazione allora violenta, e la rabbia di Castro all'apprendere che Kruscev aveva deciso di ritirarsi senza nemmeno informarlo; ricorda anche il compiacimento del lider maximo per gli slogan cantati in coro in quei giorni dai cubani delusi: «Nikita mariquita / lo que se da no se quita», Nikita finocchione, quello che si dà non si riprende. Ma la fretta di Kruscev, che accetta di corsa l'ultimatum e non sfrutta nemmeno un quinto del tèmpo che gli é Concesso, alla luce di questi documenti ora pubblicati appare come la prudente decisione di chi in quel momento non ha il controllo (o almeno il controllo completo) delle batterie missilistiche, e trova saggio sganciarsi prima dell'alba, quando cioè riprenderanno i voli americani di ricognizione. Ricorda Ellsberg, allora consigliere di Kennedy: «Bob mi disse che se ci avessero abbattuto un altro aereo, noi avremmo attaccato le batterie e probabilmente la stessa base dei Sam». A Cuba nessuno sa niente del gran giro di seminari, studi, e nuovi libri, che in America tentano di ricostruire meglio quei giorni di 25 anni fa. L'ascolto di Radio Marti, l'emittente che oggi gli esuli utilizzano da Miami per far propaganda contro il regime, trasmette solo la rabbia per una decisione che a quanti vivono sulle coste della Florida e guardano con nostalgia verso Sud pare sempre iniqua e disfattista: piuttosto che evitare una possibile guerra nucleare, dice Radio Marti, l'impegno di John Kennedy a non invadere Cuba stabili definitivamente l'accettazione americana del castrismo; e fu una sconfitta, non una vittoria. Qui si passa sopra questi commenti, li si ignora. Il castrismo è in crisi ma solido, l'economia sta sbandando drammaticamente però l'istituzionalizzazione della Revolution nella società è una r-ultà concreta, segnata da ogni atto della vita quotidiana, anche quando ci sono malumori, dissensi, critiche aspre. Fuori da questo processo restano il partito e la gestione del potere, che sono appiattiti nel burocratismo soffocante, nel dogmatismo ancora della vecchia leadership; ma l'opposizione, quella vera, subito pericolosa, non questa idealista di Bofill e del suo gruppo litigioso di pochi amici, si è allontanata poco alla volta da Cuba e vive ormai a Miami a coltivare speranze molto difficili. L'esodo comunque continua. L'esodo di quelli che si mettono a bordo di una gomma di camion e partono all'avventura delle correnti del Caribe, o la fuga più comoda del gen. Del Pino e dell'agente segreto Aspillaga. Le polemiche sulle manovre della Cia si riaccendono puntuali, con la durezza trandante della propaganda; però oggi, dopo quasi un anno di assenza, nella cosiddétta Ambasciata americana del Male, con è tornato a sedere un diy I plomatico di carriera, John Taylor, e sul marciapiede che sta di fronte e sparito con la complicità della notte il cartellone che a grandi lettere colorate gridava contro l'imperialismo di Washington. Mentre Shevardnadze, che ha fatto un lungo giro dell'America Latina, qui all'Avana si è fermato giusto per un saluto formale. Pare azzardato tentare un collegamento diretto tra questi fatti e concludere che il raffreddamen¬ to con Gorbaciov apre nuovi spazi ai rapporti con Washington. Tuttavia non è difficile seguire a Cuba le tracce di una diplomazia molto riservata che lavora con intensità per migliorare l'immagine del regime negli Usa: la Chiesa locale e la Conferenza episcopale americana stanno conducendo un lungo negoziato per la liberazione di trecento prigionieri politici, e c'è un progetto più ampio che tende a facilitare progressivamente l'emigrazione degli oppositori verso la Florida. Castro oggi è più calmo e riflessivo che in quegli ultimi giorni di ottobre del '62. Il tempo passato gli ha ingrigito la barba, e il nemico yanqui tanto odiato dalla propaganda ufficiale appare in realtà un partner prezioso da riconquistare; magari, anche nel quadro di una sistemazione generale che tenga conto pure dell'Angola e del Nicaragua. Un interscambio congelato al 92% con le economie del Comecon è disastroso, soprattutto quando la società cubana appare ormai catturata dentro le scelte agevoli dell'economia dei consumi. E i richiami all'impegno ideale, all'etica della disciplina, alla morale della lotta, appaiono piuttosto una scorciatoia senza uscita, tra lamentele, disagi, o indifferenza. Gli anni della Revolution sono ormai lontani. Ho incontrato il figlio del Che, Camilo Guevara. Ha poco più di ventanni, racconta con frasi semplici una vita senza avvenimenti. Rappresenta la nuova Cuba meglio di cento aruilisi politiche: la rivoluzione è finita, il tempo che viene non ha più la grandezza travolgente dei terremoti storiti: ed è molto difficile viverlo. Mimmo Candito untr