Alla crociata per la Casa Bianca

Alla crociata perla Casa Bianca VIAGGIO TRA I CANDIDATI ALLA PRESIDENZA DEGLI STATI UNITI Alla crociata perla Casa Bianca «Sarò un presidente che unisce questo Paese», ci assicura Pat Robertson, telepredicatore evangelico, ora candidato repubblicano - Coinvolge nella politica la destra cristiana, dopo decenni di disimpegno - Tra telecamere, preghiere, oboli, ha fatto di un frantumato esercito casalingo una forza imprevista • Contro Kemp e Dole, nella sfida a Bush per la nomination del suo partito DAL NOSTRO INVIATO LANCASTER — Giti in fondo alta distesa di moquette, oltre i lampadari enormi, alla fine dei quattro tappeti rossi, lui si è chinato un attimo per pettinarsi con le mani, inumidirsi le labbra, fare Un segno con il pollice ai suoi. Si accendono le tre telecamere che lo seguono sempre e senea saperlo i duecento fedeli dispersi tra i tavoli dell'Hilton entrano con le loro.Bibbie nel gigantesco show viaggiante che impacchetta per la tivù tutta la campagna presidenziale di Pat Robertson, compreso il brindisi senea vino, le minacce alla Russia sovietica, l'impegno a riportare Gesù Cristo nétte scuole, la preghiera collettiva a occhi chiusi: «TI ringraziamo, o Signore, perché c'è oggi un uomo che cammina nella Tua parola. Noi siamo ansiosi di vedere cosa tu farai, o Dio, attraverso questa persona. Per lui abbiamo molto pregato. Crediamo che sia venuto il tempo da Te scelto. Signore, per mettere a capo dell'America un uomo che crede in Te e riporta la Nazione ad ascoltare 11 verbo Tuo». Cosi benedetto, ogni volta che il suo King Air da otto posti tocca terra, e così garantito che le telecamere moltiplicheranno elettronicamente questa benedizione, Pat Robertson può balzare da una predica politica all'altra, dal terzo posto repubblicano nei sondaggi dell'Iowa al primo del Michigan, dalle 400 mila lettere-ingiunzione spedite ogni mese ai cristiani evangelici d'America perché sostengano la sua crociata agli 11 milioni di dollari (quasi quattordici miliardi e mezzo) di sottoscrizione che gli sono già tornati indietro. Una somma enorme, seconda soltanto a quella raccolta dal vicepresidente Bush, schiacciante rispetto ai due milioni e mezzo faticosamente raggiunti da quello che sino a ieri era considerato il vero leader potenziale della destra. Jack Kemp. n fatto è che nella cassa evangelica sono rimasti appena 263 mila dollari. Una velocità e una voracità di spesa che hanno stupito persino un candidato-miliardario come Pete du Pont, che pure passa la metà del suo tempo a girare con il bicchiere in mano da un cocktail all'altro per raccogliere soldi: quel denaro è stato investito in politica, immagine, organizzazione, dentro un campo in gran parte sconosciuto come quello della destra cri- stiano. Prima o poi qualcosa, lì dentro, succederà. In realtà, molto è già successo. Mentre i giornali raccontavano la trasformazione di Pat Robertson da telepredicatore evangelico a candidato repubblicano per la Casa Bianca, e i sondaggi seguivano la rincorsa di Kemp che continuava a portare in giro per la campagna l'ottimismo reaganiano del suo fisico da ex atleta, come se nulla fosse cambiato nell'area conservatrice, fuori del cerchio dei riflettori si andava compiendo un'altra trasformazione silenziosa e massiccia: la destra cristiana scopriva la politica e ritirava la delega, dopo decenni di disimpegno e di separazione usciva dalle chiese e parlava in proprio. L'uomo a cui è riuscito il miracolo adesso allarga le braccia e continua a sorridere, come se fosse ancora dentro uno schermo Uvii: «Io sono soltanto uno schiavo del Signore, è lui che decide cosa lo devo fare, ci assicura Pat Robertson, ma col suo aiuto, io sarò un presidente che unisce questo Paese, oggi troppo disorientato e diviso. C'è bisogno di un presidente che tenga insieme l'America e gli americani: io posso farlo, perché credo in Dio e sono un uomo suo». Se davvero può, non è solo per il Dio che crede davvero di avere con sé, come ci testimonia Geoffrey Hadden, il docente di storia delle religioni che ha studiato il fenomeno Robertson per otto anni, e nemmeno per l'impero creato con il Cbn, il netivork televisivo che rende 230 milioni di dollari all'anno. La vera forza, la forza nuova, è ormai dall'altra parte dello schermo, dove l'esercito frantumato casalingo, silenzioso e passivo che ascoltava le sue trasmissioni ogni giorno si è unificato, ha preso la parola e ha acquistato coscienza collettiva, decidendo di mostrarsi, di contarsi di pesare. Gli uomini della destra repubblicana come du Pont e come Kemp hanno ragione a essere preoccupati. Loro pensavano di correre testa a testa in quella sorta di ballottaggio che impegna sempre in questa fase delle primarie la destra repubblicana, per poi portare il suo campione a giocarsi la nomination con il vincitore della sfida moderata, tra Bush e Dole. Ma d'improvviso, si scopre che il comitato politico di Robertson ha stanziato da due a tre milioni di dollari un anno fa per aiutare alcuni candidati repubblicani nella corsa al Senato, e dunque oggi ha un piede nel Congresso; guardando meglio, ci si accorge che il suo Freedom Council, sema clamore, già da due anni va spingendo gli evangelici a farsi strada nelle organizzazioni locali repubblicane e a candidarsi per incarichi pubblici, affiorando nella periferia americana. E quel che si viene a sapere, in ogni caso, non è tutto: nello Iowa, infatti, è stato scoperto un manuale con suggerimenti segreti per accompagnare la conversione evangelica alla politica: «Cerca di non far capire che un gruppo di amici sta diventando attivo nel partito. Ricordati comunque sempre di nascondere la tua forza». Strategia A eccezione dei suoi fedeli (che qui nel salone dell'Hilton lo applaudono ogni volta che consegna una frase al microfono, tenendo le mani dietro la schiena, in uno stile confidenziale da intrattenitore più che da politico) tutti sanno che Robertson non può farcela a sorprendere il vecchio partito repubblicano, conquistarlo d'un balzo e ottenere la nomination. Per questo lui cambia piceo, uscendo dai confini del partito per andare alla cattura di un elettorato fino a ieri inesistente: è l'universo minimo e diffuso delta destra cristiana che votava saltuariamente e comunque senza passione e senza radici, e non si sentiva legata ad un partito. «Non abbiamo con noi truppe professionali e regolari, ci conferma Kerry Moody, direttore della campagna di Robertson per tutto il Nord-Est, ma gente ordinaria che per la prima volta passa dalle riunioni religiose alle riunioni di partito. In fondo noi non facciamo altro che organizzare volontari, tre milioni di volontari, costruendo nei fatti una struttura politica nuova». E proprio questo semina disagio dentro la vecchia casa repubblicana. Non solo gli evangelici (tra venti e quaranta milioni negli Stati Uniti) si confermano una forza determinante nell'area conservatrice, capace di spostare negli ultimi otto anni più di otto milioni di voti presidenziali dai democratici ai repubblicani; adesso con la caccia a un elettorato sicuramente cristiano ma politicamente sconosciuto, Robertson minaccia di alterare tutto il processo di selezione presidenziale, in modo imprevedibile, n paradosso repubblicano è drammatico: Robertson non è evitabile, perché i cristiani fondamentalisti sono una riserva di voti decisiva; ma non è nemmeno augurabile, perché rischia di spostare troppo a destra la piattaforma repubblicana, come ci spiega i politologo Larry Sabato, rompendo l'unità della coalizione reaganiana, e facendo scappare i voti dei moderati. I valori che lui agita sono vitali per il suo campo, ma sono anche troppo parziali per egemonizzarlo. E infatti il campo conserxatore è scosso, mentre Robertson beve té freddale continua; a sorridere al popolo dèlta Pennsylvania, promettendo che caccerà tutti «gli ex carterlani dall'amministrazione», farà pesare «i muscoli dtila Casa Bianca», lavorerà per la pace, sapendo però che «se si deve fare la guerra bisogna farla per vincere, e in fretta». Il problema repubblicano è un altro: per la prima volta negli ultimi vent'anni, l'ala conservatrice del partito è divisa e come ci testimonia Fred Barnes, analista di New Republic, «sembra ormai troppo tardi perché qualcuno riesca a unificarla». Pere du Pont appare fuori gioco, e anche se continua a girare l'America con il suo cognome da Wall Street, il suo programma da •populista patrizio; la sua valigetta da trucco, nei circoli di Washington, la sera, gli intellettuali dicono che «assomiglia troppo a George Bush e parla come Gerald Ford», e non è un complimento. L'uomo della sola unificazione postreaganiana possibile tra le destre economica, sociale e cristiana. Jack Kemp, adesso sta alzando per scherzo un pallone da football nello stadio di Buffalo, dov'è tornato a mostrarsi a chi lo aveva conosciuto nella sua precedente vita, quella da campione. Porta sempre al dito il grosso anello dei Buffalo Bills, e ha la stessa rabbia in corpo di quando correva da quarterback. Campione Dicono che ha perso velocità, è in ritardo nei sondaggi, non riesce a costruirsi un'immagine presidenziale solida, e il vecchio stile da campione rivestito con la cintura di Gucci e il blazer blu lo imprigiona. «Datemi tempo, ci dice lui fiducioso. 1 sondaggi contano e non contano, io aspetto i dibattici televisivi dove bisognerà tirar fuori le Idee, per conquistare la leadership conservatrice. La gente sa che io sono il vero autore della politica di taglio delle tasse che ha lanciato la rivoluzione reaganiana. Ma in più, sa che sono l'architetto-cliiave della piattaforma su cui Reagan ha vinto nell'80 e nell'84. Al momento del voto, 1 conservatori sceglieranno me, e nessun altro». Cosi Kemp corre dietro l'ultimo pallone, quello della sfida a George Bush per la nomination repubblicana. Una sfida che oggi è nelle mani di Bob Dole, con Robertson nel ruolo imprevisto di terzo incomodo. Per la prima volta in vent'anni, se la partita si chiuderà sul duello tra Bush e Dole, la destra non avrà un suo vero candidato — prodotto e controllato dal movimento conservatore — per il duello presidenziale repubblicano. E si capisce questo strano inverno dello scontento conservatore, coperto appena dal brusio dell'ultima preghiera, qui nel salone dell'Hilton. dove Pat Robertson ha chinato il capo, e tiene gli occhi chiusi: •Dobbiamo ricostruire la forza dell'America e la sua virtù. Preghiamo per l'uomo emaciato a farlo da Dio. La torcia ci è stata data accesa: lui la passerà al nostri figli, senza lasciarla spegnere». Ezio Maoxo i a i i New York. Pat Robertson, il predicatore televisivo evangelico, mentre annuncia la sua candì«nomination» del partito repubblicano per la corsa alla Casa Bianca (Telefoto Ap)