Il vecchio sergente torna tra gli alpini

Il vecchio sergente toma tra gii alpini TUFFO NELLA NOSTALGIA VISITANDO LA CASERMA DEL BATTAGLIONE PIEVE DI CADORE Il vecchio sergente toma tra gii alpini lì colonnello: «Guardi dove vuole, non abbiamo segreti. Ma prima un bicchiere, come vuole la tradizione» - Chi si rivede: i mortai da 81 e i muli - Ma sono in arrivo i fuoristrada, addio leggendario maniscalco - E quarantanni fa, quando la montagna era popolata, bastava una valle a costituire un battaglione: ora tutto è cambiato - «Il padre di questo generale era davanti a me a Nikitowka» Quanti anni sono passati da quando uscii in divisa da una caserma? Più di quaranta, a fare il conto; ma l'altro giorno passando dal Cadore, ricordando che nella vecchia caserma absburgica di Tai, dal 1870 dedicata a Pier Fortunato Calvi, aveva fatto l'alpino mio nonno, chiesi, con la presentazione del sindaco di Calalzo, la possibilità di una visita. Mi incuriosiva molto conoscere, vedere e parlare con i soldati di oggi; non per confrontare il servizio di leva di mio nonno (36 mesi, e a casa in licenza veniva a piedi), o il mio (70 mesi), ma per constatare de visu e magari riferire le mie impressioni. Il tenente colonnello Scozzaro, un piemontese che comanda il battaglione Pieve di Cadore, accolse il mio desiderio e semplicemente rispose: «L'aspetto». All'esterno, sullo spazio antistante la vecchia caserma color ruggine, erano in sosta decine di automobili private degli alpini e le targhe dimostravano la provenienza: BL, VI, ma anche MO e BO. La sentinella ci chiese un documento di identificazione, consultò un foglietto e ci diede il passi dicendo che il colonnello ci aspettava. Ci venne subito incontro con il suo aiutante, in divisa da campagna: camicia grossa di tela con il nome stampato sul taschino e i gradi sulle spalline, berretto con visiera, pantaloni stretti alla caviglia, scarponi. Un saluto, una stretta di mano. Disse subito: «Lei può chiedere quello che desidera sapere, guardare dove vuole; non abbiamo segreti; ma prima andiamo a bere un bicchiere di prosecco perché questa è la tradizione dell'ospitalità». Ci avviammo verso la mensa ufficiali e con l'istinto del vecchio sergente guardai nel cortile dove un gruppetto di alpini era indaffarato a pulire (re mortai da ottantuno e un plotone stava mettendosi in riga per qualche istruzione. Vecchie scale di pietra, vecchie mura; cortili, scuderie, magazzini, camerate, furerie, cucine: quante migliaia di alpini in cinque o sei generazioni sono passate da qui? Ricordavo storie che avevo sentito e letto, vissute, visi amici, tante speranze e tante sofferenze. E quei giovani montanari bellunesi che da questa caserma nelllautunno'del 1942 vennero a completare i nostri reparti in linea sul Don. E ricordavo Piero Jahier che su questi alpini veneti scrisse cose che forse più nessuno legge, ma che dovrebbero essere obbligatorie nelle caserme come il Vangelo nei conventi. Alzando il dito indice della mano che tiene il bicchiere di prosecco brindo al 7° Alpini che in questi giorni compie cento anni, e poi scendiamo nei cortili a incontrare i soldati di oggi. Ci avviciniamo agli alpini in tuta cachi che stanno pulendo i mortai; si mettono sull'attenti salutano, il colonnello risponde con pe-i'-'to stile e dice: «Azione» ■ mortai in dotazione sono ancora gli ottantuno che tanta parte hanno avuto nella seconda guerra mondiale e di una loro granata conservo ancora un pezzettino nel braccio destro. Gli alpini li stanno strofinando e oliando; parlo con loro e leggo i nomi stampati sulle tute, forse ricercando un volto. Si mettono sull'attenti rispondendo «signorsì» o «signornò», al che sorrido un po' imbarazzato perché mai nessuno mi ha detto cosi e li prego di non trattarmi come un loro ufficiale. Non comando proprio niente, io! Sono un loro ospite. Dopo avermi presentato, il colonnello si allontana per non metterli in soggezione e qualcuno di loro dice di aver letto a scuola // sergente nella neve. Dopo aver parlato dei mortai e di come il sergente Baroni li puntava senza usare gli strumenti, parliamo della loro naia, dei loro paesi, del lavoro, La loro vita militare sta per finire perché restano tre caffè all'alba, e i dodici mesi che sembravano eterni sono invece volati via in un amen tra corso addestramento reclute, escursioni, licenze, corso sciatori e corso roccia, manovre, guardia alle polveriere. Questo che stanno facendo è l'ultimo lavoro prima del congedo. Alla mia richiesta sulla provenienza, rispondevano tutti con il nome del capoluogo di provincia e alla osservazione che mi sembrava impossibile fossero tutti alpini di città, solo allora dissero il nome delle città ai piedi delle montagne o dei paesi allo sboccare delle valli. Ma fino a quarant'anni fa, quando la montagna era ancora popolata, bastava una vallata per costituire un battaglione, un paese per una compagnia, una contrada per un plotone; e unica lingua parlata era il dialetto, se non il patois; non l'italiano della televisione o dei fumetti. Ora non è più cosi per i motivi che tutti conosciamo, e an- che gli alpini l'esercito li deve reclutare in pianura (magari capita che un rocciatore o uno che fa lo sci escursionistico lo mandano a fare il piantone a Roma). Le scuderie sono nell'edificio accanto all'armeria e quelli che ora vedo nel cortile selciato, sotto l'operazione della brusca e striglia, sono forse gli ultimi muli dell'esercito italiano. Leggo i loro nomi nell'elenco infisso sulla porta della scuderia, nomi che si ripetono da cent'anni-e che ricordano città nostre, montagne, valli, fiumi, paesi. Nomi di muli che sentivo gridare, bestemmiare, chiamare, implorare sulle montagne dell'Albania e nella steppa della Russia. Animali sì, esseri animati, cioè dotati di senso e di moto, non bestie. Compagni nostri di sventura e di ventura che tante vite hanno salvato. Tra poco, tra qualche mese, mi spiega il colonnello Scozza¬ ro, ì muli verranno sostituiti da speciali automezzi leggeri fuoristrada adatti alla montagna. Ma osserva, anche, che dove il terreno è rotto o fittamente boscato questo automezzo non potrà passare, e che quando c'è la nebbia l'elicottero non può arrivare dove occorre. E allora? Non sarebbe opportuno conservarne un piccolo nucleo per ogni reparto di montagna? Parlo con il sottotenente veterinario e con i conducenti; mi rèndo contò che il vecchio gergo non è più in uso e penso che il tenente Paolo Monelli che ha scritto e filosofato sugli etimi dei conducenti alpini, rimarrebbe sconcertato. Un'epoca è decisamente finita, accarezzo sul muso un mulo grigio e gli sussurro piano, per non farmi sentire: «Ciao vecio». La mascalcia è ricolma di ferri e di chiodi, da ferrarne centinaia di muli, e poi tenaglie, martelli, pinze, cesoie; ci sono sì l'incudine e il segno dove c'era la seconda incudine; c'è la forgia, ma il fuoco è spento e non si sente nemmeno l'odore delle unghie bruciate dal ferro rovente che per cento anni e più qui era persiselo. Il maresciallo maniscalco andrà presto in pensione, nessuno verrà a sostituirlo e così anche l'antica e nobile arte del marescalco avrà qui fine. Anche la cucina con la legna dei boschi che bruciava sotto le marmitte è solo una memoria; trovo pentole a pressione, forni elettrici, macchine lavatrici, affettatrici: apparecchiature e macchinari da grande albergo; e frigoriferi, stanze pulite per pesare e preparare i cibi e in una di queste stanze mi viene sciorinata davanti agli ocelli increduli la Razione Kappa che sostituisce le due gallette e una scatoletta di carne del mio tempo, i «viveri di riserva» tanto sofferti. Seimila calorie ha la Razione Kappa, divisa in tre pasti: latte condensato, biscotti dolci e salati, caffè liofilizzato, cioccolata, zucchero, cacao solubile, marmellata, carne di manzo e di maiale, minestrone di pasta e fagioli, busta di dissetante vitaminico, cordiale, scaldarancio, combustibile solido, salviette, apriscatole, fiammiferi. In cucina stanno ultimando la preparazione del rancio di mezzogiorno. L'odore è molto stuzzicante, non certo di rancio e parlo con i cuochi che stanno lavorando ognuno al proprio piatto. Due sono diplomati dalla scuola alberghiera di Recoaro e si fanno qui il loro servizio di leva; uno è specialista in primi, l'altro in secondi. Il risotto di mare che sta cuocendo in una grande casseruola soddisferebbe anche il più esigente dei palati e le trote al burro insaporite con l'alloro emanano un grato profumo. All'entrata del refettorio e sulla porta della cucina sono esposte le liste del «programma quindicinale del vitto»: firmate in calce da due alpini del nucleo controllo cucine, dal comandante del battaglione e dal capitano addetto al vettovagliamento. Leggo il menù di oggi. «Refezione del mattino: latte e cacao, the, pane, biscotti, cioccolato, succo di frutta, burlino. Primo pasto: pasta ai sughi vari, risotto di mare, frittura mista, trote, involtini, contorni mi sii, pane, frutta, acque minerale, vino, birra, bibite varie. Secondo pasto: pasta fila carrettiera, tortellini in brodo, formaggio fritto, hamburger, contorni misti, pane, fruita, acqua minerale, vino, birra'). Questa è la lista di un giorno qualunque. A mezzogiorno gli alpini incominciano ad affluire verso il refettorio; no. non si mettono in fila con la gavetta in mano ad aspettare un mestolo di tubi in brodo, ma si accostano a un tavolo di distribuzione dove un loro collega in giacca rossa e pantaloni bianchi propone, suggerisce e aiuta a sceglier;. L'ordine, la pulizia, la qualità del cibo sono di gran lunga superiori alle migliori tavole calde delle stazioni ferroviarie delle grandi città. Sulle tavole del refettorio (sopra le tovaglie di plastica il colonnello vorrebbe far mettere tovaglie bianche, di tela) sono posate a disposizione di chi vuole le bottiglie delle bevande e qui mi dispiace vedere le bottiglie del vino quasi intatte perché a queste sono preferite le acque colorate e gassate. Dopo aver chiesto il permesso a un caporale dissigillo una bottiglia di sangiovese e me ne verso mezzo bicchiere: è buono, e non lo dico per compiacere. Lasciamo gli alpini al loro pasto, attraversiamo il cortile e saliamo negli uffici del comando di battaglione. C'è un silenzio da monastero; alle pareti vi sono i cimeli del reggimento: vecchie stampe a ricordo di tante campagne, trofei sportivi, brevetti di decorazioni al valore, il vecchio gagliardetto dei «Volontari alpini del Cadore» che dalla Marmolada al Peralba, ma più sulle Tofane, tra il 1915 e il 1917 fecero cose epiche. Anche la bandiera tricolore del Settimo Alpini è custodita qui e tra i nastri azzurri delle medaglie al valor militare spicca quello della medaglia d'oro al valor civile meritato per il Vajont. La notte del 9 ottobre 1963. alle 22.45. cadeva la grande frana dentro il lago e tutto divenne buio. Qualcuno corse su a dare l'allarme in questa caserma che dista ventiquattro chilometri e a mezzanotte il battaglione Pieve di Cadore era nella parte settentrionale di Longarone dove c'e rano ancora dei vivi da salvare o dei superstiti da assistere. Lavorarono nella notte buia, nell'alba livida, nel sole allucinante, senza chiedere nulla, senza parlare sino a cadere sfiniti. Mi guardo attorno, osservo, rifletto in questa «cappella laica» e mi viene da considerare la lunga naia alpina che si è presa tutta la mia giovinezza. l'esercito nei suoi aspetti esaltati o biasimati. Anche per me, ora, amore/odio. L'Aiutante maggiore viene a dire al colonnello Scozzaro che il generale comandante del 4° Corpo d'Armata Alpino in questo momento è in visita alle caserme di Santo Stefano e di Pieve e che forse passerà anche da qui. Il generale invece arriva subito dopo, improvvisamente, e rimango sorpreso nel leggere il nome sulla camicia di tela, scritto come quello di un qualsiasi soldato: Meozzi. Il pomeriggio del 25 gennaio 1943 si stava attraversando il villaggio di Nikitowka; gli esploratori erano davanti alla mia squadra che doveva, se necessario, appoggiarli con l'unica mitragliatrice rimasta alla compagnia. A poche decine di metri da noi camminavano il maggiore Bracchi che comandava il Vestone, il maggiore Meozzi del Gruppo Bergamo dell'artiglieria alpina e un paio di portaordini; una scarica improvvisa di pallottole li investe anche il maggiore Meozzi viene colpito. Reagiamo all'attacco e poi entro nell'isbà dove sono ricoverati i feriti. Meozzi disteso sul i avolo, sereno, e ha la forza di scherzare con Bracchi. Una donna russa ci offre del caffè. Ricordo questo e altro al figlio di Meozzi che allora era un ragazzino che aspettava il papà, come tanti altri. Il colonnello ci invita a fermarci alla mensa ufficiali del battaglione. Non oso esprimere il desiderio di scendere a mangiare con i soldati, forse il generale Meozzi acconsentirebbe, forse sarebbero i soldati a sentirsi a disagio. A tavola il discorso si allarga: il generale parla delle manovre che tra poco coinvolgeranno la Tridentina e la Cadore alla presenza di alte autorità internazionali civili e militari. Invita anche a scegliere per la cucina della truppa i migliori cuochi che la leva offre, ma anche a insegnare agli alpini ad «arrangiarsi» ossia, nelle escursioni e alle manovre, di non aspettare il rancio portato sul campo dagli automezzi, o allestito nei rifugi, bensì prepararselo con i viveri in natura, squadra per squadra al fuoco del bivacco: è questo un mezzo, spiega, per legare i soldati fra loro, per rinsaldare amicizie. E poi, rivolgendosi direttamente a me: « Vede, noi militari, forze armale, ci sentiamo la serratura della casa Italia; diamo sicurezza a chi sta dentro la casa a lavorare". Sì, penso, questo è vero, ma anche è vero che le porte si possono lasciare aperte e che la parola d'ordine è per tutti libertà nella democrazia. Mario Rigoni Sterri Alpini in esercitazione sulle pietraie dell'Adamello portano a spalla munizioni da mortaio (fotografia di Enzo Isaia da «Noi alpini», ed. Il Diaframma)

Persone citate: Animali, Enzo Isaia, Mario Rigoni, Paolo Monelli, Pier Fortunato Calvi, Piero Jahier, Scozzaro