La Torre di Babele di Igor Man

La Torre di Babele La Torre di Babele Sono oramai sette anni buoni che Iraq e Iran si scannano, presi nella spirale di un conflitto armato, cucito col filo rosso dell'ideologia, che ha offuscato ì miti e gli orrori delle grandi battaglie della Marmarica, che ha stravolto il ricordo storico di Verdun, della Marna, delle Ardenne. L'anniversario della lunga guerra cade il 22 settembre, quando, nel 1980, Saddam Hussein lanciò (lui dice per reagire alle provocazioni iraniane) le sue divisioni contro le pressoché inesistenti difese dell'Iran, presupponendo una Blitzkrieg alla israeliana. Non pochi esperti americani, allora, parlarono di «guerra di Topolino» ma Henry Kissinger prefigurò uno scenario invero drammatico per infine concludere che «nessuno dei due, né l'Iran, né l'Iraq, dovrà vincere; debbono rimanere entrambi sulle ginochhia, stremati», pena il «fatale coinvolgimento» in quella rissa atroce, impastata di sangue e di petrolio, delle due Superpotenze. A sette anni dall'inizio delle ostilità, cinque anni dopo il cinico auspicio-profezia di Kissinger, assistia mo a un ennesimo giuoco dei quattro cantoni cui Pae si arabi e non sono costretti dall'implacabile scontro fra la teocrazia khomeinista e il regime baasista di Saddam Hussein. Ghcddafi, lascia alla Siria il ruolo improprio di fiancheggiatore dell'Iran per riaccostarsi a quell'Iraq al quale ha sempre rimproverato il flirt con l'Egitto «ca pitolardo» e con gli Stati Uniti «terroristi di Stato». Ma se Gheddafi è il mabui, cioè «il matto che dice la verità», angosciato dalla prospettiva di rimanere più isolato di quanto già non sia in quel mondo arabo che mai l'ha amato, ritenendolo un «grillo parlante» spocchioso e mestatore, che dire della Siria del freddo Assad? Per togliersi di dosso l'infame etichetta di «grande vecchio del terrorismo mediorientale» affidatagli dalla Thatcher, Assad è riuscito a ottenere che l'Iran cedesse a lui il merito della liberazione (sia pure col contagocce) degli ostaggi occidentali in mano agli he:bollali. Ed ecco gli Usa ricomporre il rapporto diplomatico con Damasco, pur sapendo che il duce siriano non intende (perché non può, almeno per ora) troncare il suo filo diretto con Khomeini. Sempre nel segno del paradosso, assistiamo a un impegno («pericoloso perché non pianificato, follemente empirico» per citare il New York Times) degli Usa nel Golfo che in teoria è volto a proteggere la libertà di navigazione internazionale ma, in fatto, piuttosto che favorire il fragile Kuwait e, più in generale, la comunità occidentale, finisce col fare il giuoco dell'Iran, l'unico Paese al quale interessa che lo stretto di Hormuz sia transitabile (altrimenti come farebbe a spedire il suo petrolio che gli assicura i dollari per continuare la guerra?). Al tempo stesso, Washington operando nel Golfo favorisce quella internazionalizzazione del conflitto che Saddam Hussein cerca di provocare fin dal 26 aprile 1984 allorché attaccò coi suoi jet la petroliera saudita SgpcLscnd Sa fina al Arab. «L'Iran hi quasi vinto la guerra, l'Iraq non l'ha ancora perduta», scrivono gli specialisti americani, ed ecco la Lega Araba, messa alla frusta dalla strage della Mecca, convocare un summit che finisce in coda di pesce: nonostante l'Arabia Saudita, dismessa l'abituale prudenza, chieda ai fratelli arabi la rottura delle relazioni con l'Iran, il vertice si conclude con una mozione ambigua. Ma è da dire che l'Arabia Saudita ancorché definita da Khomeini mulhìd, eretica, e minacciata di sterminio dall'Iman, esita ancora a rompere unilateralmente le relazioni con Teheran, non disdegnando un'alleanza tattica con l'Iran in seno all'Opec. Del resto, dopo sette anni di guerra, a Baghdad c'è sempre un incaricato d'affari iraniano, e a Teheran quello iracheno. Ed è anche vero che gli Stati Uniti con la loro armada nel Golfo finiscono con l'aiutare quell'Iraq eh'è il nemico numero uno di Israele, «proiezione» degli Usa in Medio Oriente. Poiché, tranne miracoli, la missione di de Cuéllar non sembra destinata al successo, potrebbe accadere che quando le nostre navi andranno ad aggiungersi nel Golfo, o in quei paraggi, alle quasi cento unità navali che già vi incrociano, in una babele di bandiere vere e posticce, il coro dissonante di voci cui finora fa riscontro l'inquietante silenzio di Mosca, diventi fragore funesto di cannonate. Crepi l'astrologo, beninteso, anche se Churchill diceva che ad un certo momento «quando ce ne sono troppi, ì cannoni si mettono a sparare da soli». Igor Man Teheran. Un momento dei colloqui tra Perez de Cuéllar (a destra) e l'iraniano Velayati