Inseguono Dante nelle città d'esilio di Giorgio Calcagno

Inseguono Dante nelle città d'esilio RAVENNA: I MAGGIORI STUDIOSI CONFRONTANO DOCUMENTI E IPOTESI Inseguono Dante nelle città d'esilio DAL NOSTRO INVIATO RAVENNA — C'è una carta d'Italia che sarebbe suggestivo disegnare: quella delle città toccate da Dante nelle peregrinazioni dell'esilio. E ce n'è un'altra, non meno stuzzicante: quella dei luoghi dove è stata scritta la Commedia. Ma la prima è problematica, la seconda decisamente infida. Oli studiosi fissano 1 punti certi e sono costretti a lasciare molto spazio alle ipotesi. I documenti del tempo sono rari, 1 contemporanei non scrivevano mossi da scrupolo storico; lo stesso Boccaccio, nell'erigere il suo monumento al poeta, accredita molta leggenda. In verità, la fonte più sicura è ancora lui. Dante: cosi preciso nel citare luoghi e personaggi con il taglio delle cose viste; giudice ma anche testimone, memoria insostituibile del suo tempo prima ancora che creatore di un universo destinato a attraversare i secoli. E' quanto emerge dal convegno su «Dante e le città dell'esilio', che si è concluso ieri sera alla Biblioteca Classense, per il 666° annuale della morte dell'Alighieri. L'ha promosso l'Opera di Dante, benemerita istituzione sorta nel 1919 per difendere a Ravenna non soltanto le ossa del poeta; e che, contro tutti i pettegolezzi di campanile, lavora in buona intesa con la Società Dantesca Italiana di Firenze. Per discutere sui luoghi e sui tempi dell'esilio sono convenuti nella città dei signori da Polenta 1 maggiori dantisti italiani, con alcuni importanti stranieri. E quasi tutti, nel fare tante utili messe a punto sulla base dei dati oggi disponibili, hanno dovuto riconoscere che sarà molto difficile illuminare le residue zone di buio. Lo stesso Giorgio Petrocchi, colui che tiene ambo le chiavi del poeta, la vita e l'opera, ha ammesso tutte le incertezze sulla data di un periodo pur cosi decisivo come il soggiorno di Dante a Roma nel 1301 per l'ambasceria da Bonifacio Vili. Il poeta parti prima o dopo il colpo di mano dei Neri a Firenze? Ebbe il permesso di lasciare Roma o dovette fuggire di nascosto, per non essere arrestato dagli uomini del Papa Caetani. e consegnato ai suoi nemici? « Preferisco pensare che la notizia del trionfo nero lo raggiungesse per via», ha detto l'autore della più aggiornata Vita di Dante. Ma la preferenza è un dato sentimentale, non un argomento storico. E ancora Petrocchi non è in grado di dire se Dante, nel tornare da Roma, si sia tenuto lontano da Firenze, dove già le case dei Bianchi venivano bruciate, o se vi sia rientrato per pochi giorni clandestino, con pericolo di vita, per rivedere l'ultima volta la sua città. Un fanciullo CI sono dati più certi sul soggiorno a Verona. Ma Petrocchi e Francesco Mazzoni concordano che non è possibile provare la presenza di Dante a Treviso, dove 11 poeta si sarebbe rifugiato nel 1304 dopo la morte del Gran Lombardo, Bartolomeo della Scala e l'avvento al potere di Alboino, detestato dal poeta. Sembrano fuori discussione, fra il 1306 e il 1308, gli anni di Lucca, dove Dante avrebbe dato una sistemazione defi¬ nitiva all'Inferno (e il ventunesimo canto è tutto «lucchese», con il ricordo del Santo Volto). Ma Giorgio Varanlni, che ha studiato il tema, non ha trovato neppure un documento che confermi la presenza del poeta e della sua famiglia nella città del Serchio. Ancora Mazzoni deve limitarsi alla ipotesi — anche se molto suggestiva — per un soggiorno di Dante a Genova nel 1311, «dove penso che abbia raggiunto Arrigo VII durante l'assedio alla città: E, suggestione per suggestione, qui dovrebbe averlo incontrato un fanciullo che si chiamava Francesco Petrarca. E dove'furono composte le cantiche del poema? Petrocchi ha fissato alcune linee guida, ma le città d'Italia tutte piene sono di voci, rivendicazioni, scoperte tardive per aggiudicarsi almeno questo o quel canto. Una studiosa, Leonella Coglievina, si è divertita a raccogliere le leggende «sul passi dell'esule», che dimostrano una gara campanilistica in corso per secoli. C'è il caso di Gubbio, la patria di Oderisi, dove nel Settecento un discendente di Bosone sosteneva di avere trovato un testo del suo proavo che attestava la presenza di Dante 11, nel 1315, a lavorare sul poema. E' vero? Non è vero? La notizia non può essere confermata né smentita, come quelle che già il Foscolo all'inizio dell'Ottocento diceva fossero fiorite in tante città. Se il percorso biografico è accidentato, quello linguistico, raccordato agli spostamenti del poeta, è quasi Impercorribile. Giovanni Nencloni, presidente della Crusca, confessa di avere accettato l'Invito a tenere una relazione sul «contributo dell'esilio alla lingua di Dante» come una scommessa: •E'un tema assurdo, temerario, si può tentare solo con una serie di ipotesi'. E' vero, Dante scrisse in esilio il De vulgari eloquentia, ma determinare quanto i movimenti da città a città abbiano influenzato la formazione del suo linguaggio poetico è impossibile: «Certo, nella Commedia ci sono tanti modi di dire, parole riprese da altri dialetti che sono prova diretta della sua esperienza di esilio. Ma noi in realtà non sappiamo che cosa abbia scritto con esattezza Dante. Non abbiamo nessun autografo. Ci sono tante versioni, con varianti anche dialettali apportate dagli amanuensi. Possiamo solo supporre che Dante abbia scritto nella versione oggi stabilita dal Petrocchi. Il tema, per il linguista, rimane aperto-. Un'incognita che gli studiosi speravano di risolvere riguarda la presenza di Dante a Parigi, in quel vico degli Strami dove Sigieri di Brabante sillogizzò i suol -invidiosi veri: Christian Bec, il grande italianista della Sorbona, ha voluto sgombrare subito il terreno: «/I problema in questi termini rimane sospeso, ci ha detto. A meno che salti fuori qualche documento, cosa estremamente improbabile. Ma non è un problema importante. E' importante invece che gli scrittori francesi, dal Quattro al Novecento, abbiano creduto alla leggenda di Dante a Parigi: In parte c'è l'influenza del Boccaccio, che quella leggenda aveva creato; in parte «il nostro sciorinfsmo-, per il quale Dante non poteva non andare a Parigi se voleva passare dalla poesìa municipalistica a quella universale. «Afa c'è anche un sentimento tipico dell'intellettuale moderno: lo scrittore per arrivare all'apice della gloria e della poesia deve conoscere insieme il dolore e l'esilio. Victor Hugo, esule a Guernesey, si sente, in fondo, un altro Dante-. La rivalsa Sull'analogia fra l'esilio di Dante e quello dello scrittore moderno non è d'accordo l'interlocutore che a Dante dovrebbe essere fra tutti più vicino, il poeta Mario Luzi. L'esilio, per lui, non va letto nelle linee geografiche o politiche, ma in quelle esistenziali, interiori. E' l'elemento che fonda l'esistenza di Dante, il suo progetto di poesia. La proscrizione del cittadino, la confisca dei beni, erano sentite, nella società comunale, come un'onta e quasi una maledizione biblica. Dante ne è cosi consapevole che si adopera a debellare la potenza di questa maledizione, ritorcendo l'accusa contro i legiferatoli e i loro mandanti. -E' essenziale per lui volgere al positivo, convertire quasi in un privilegio, la condizione di un messo al bando. Nella fiera rivalsa che da giudicato lo erige a giudice egli converte l'esilio in autoesilio, il bando in autoesclusione-. Il poeta che mendica la vita a frusto a frusto, si fa parte per se stesso, rifiuta tutti i patteggiamenti anche col mondo degli altri fuoriusciti. E, in vent'annl di doloroso vagabondaggio, ricrea la sua Firenze, da solo, lontano, nel suo poema. Giorgio Calcagno