Giappone degli dei

Giappone degli dei Handicappati in gara Le leggi di Galbraith le Opinioni del sabato ; Giappone degli dei Handicappati in gara Le leggi di Galbraith RENATA PISU L'Oriente è morto. Strano ma è morto proprio nel momento in cui sembra godere di ottima salute, almeno per quanto riguarda il Giappone, ormai avviato a diventare il Numero Uno dell'economia mondiale, dove si accumulano ricchezze favolose, altro che quelle degli sceicchi. E' morto anche nei Paesi di nuova industrializzazione dell'Asia dove benessere e soldi finalmente allietano esistenze non più miserevoli. Nessuno infatti vuole più essere definito orientale, il termine suona offensivo, troppo esotico per orecchie asiatiche evolute che detestano i facili cliché. I giapponesi arrivano addirittura a rifiutare di considerarsi asiatici. Gli asiatici sono gli altri, loro sono «giapponesi», il che non vuol dire che siano «occidentali», assolutamente, visto che se l'Oriente è morto, come categoria della mente e della storia, è morto anche l'Occidente, mentre conoscono dilagante successo gli altri due punti cardinali, Nord e Sud, specie nella contrapposizione Nord-Sud eminentemente economica, cioè Paesi del Nord del mondo sviluppati e Paesi del Sud invece ancora e sempre in via di sviluppo e indebitati fino al collo. Mi dice una ragazza giapponese che quando andava a scuola non riusciva a capire, e come lei nemmeno tutti gli altri ragazzi, come mai loro, i giapponesi, fossero Estremo Oriente. La carta geografica, con il Giappone al centro e a Est il continente americano, non serviva di certo a svelare il mistero: poi, crescendo, ha capito che .era una definizione irrazionale e presuntuosa dell'eurocentrismo. Tutte le carte geografiche giapponesi sono nippocentriche, con l'arcipelago piazzato nel bel mezzo, contornato di rosso in quelb a uso scolastico. Quindi, di quale Oriente si va ancora parlando? L'Oriente è morto. Ma se la morte dell'Oriente, favoloso, misterioso, diverso, non ci stupisce ed è anzi un bene che si seppelliscano astrazioni concettuali vetuste, non si capisce perché debba morire anche l'Asia, intesa sia pure soltanto come «espressione geografica». Una pubblicità-progresso che si vede spesso alla tv mostra un bel giapponese sorridente con un boccale di bina in mano che dice: «Perché non fare amicizia con un asiatico?». Gii, perché no? Ma lui chi è? Escluso che sia un africano, un europeo o un americano, dovrebbe essere un asiatico. Invece no: è un figlio di Yamato, diretto discendente degli dei, autorizzato quindi a fregarsene dei punti cardinali e delle denominazioni geografiche. Inutile dire che agli altri asiatici questa «spocchia» giapponese dà molto sui nervi. A noi occidentali assai meno, per ora. Infatti non abbiamo mai avuto i giapponesi in casa, come è toccato invece ai coreani, ai cinesi, ai filippini, abbiamo soltanto le nostre case rigurgitanti di cose giapponesi, oggetti meravigliosi che non vengono dall'Oriente, per carità, e nemmeno dall'Asia ma sono «piovuti dal cielo», doni del Paese degli dei che però paghiamo perché non è mica vero che gli dei siano sempre generosi e disinteressati. Anzi: ci sono addirittura degli dei falsi e bugiardi, come ci hanno insegnato alle lezioni di catechismo. SERGIO QUINZIO Oontemporaneamente ai Campionati mondiali di atletica leggera di Roma, a Glasgow si sono svolti i Campionati europei di scherma per «portatori di handicap», e sulla stessa pista dello Stadio Olimpico abbiamo visto correre anche in carrozzina Un genere di gare, questo, di fronte al quale non credo di essere il solo a provare sentimenti contraddittori, e qualche perplessità. Le società del passato non esitavano a emarginare i loro componenti meno fortunati. Se si pensa alle masse di schiavi, e poi ai servi della gleba, e ancora, vicinissimi a noi, ai privi di censo ai quali veniva negata la rappresentanza politica, l'appartenenza a pieno diritto alla società appare addirittura come esclusiva di una minoranza di privilegiati. Per i più infelici, quelli che noi chiamiamo handicappali, si giungeva sino all'esclusione più radicale, l'uccisione. Le cose sono cambiate quasi improvvisamente, sebbene il cambiamento manifesto sia frutto di una lunghissima trasformazione nascosta, che ha all'origine l'insegnamento cristiano dell'amore per il prossimo. Oggi sentiamo come una colpa le difficoltà che con le nostre «barriere architettoniche» frapponiamo al movimento di chi è costretto in carrozzina. L'handicappato fisico, fino a ieri ghettizzato negli ospizi — senza scrupoli di coscienza, anzi con la convinzione di comportarsi in modo generoso e meritorio nei suoi confronti — può certamente, e quindi deve, essere aiutato a inserirsi nella società, a svolgere in essa un lavoro utile per sé e per gli al¬ tri, a «realizzarsi» in modo autonomo. E' sperabile che anche i «portalori di handicap psichici» possano essere, almeno entro certi limiti, recuperati. Ma c'è qualcosa di strano nel fatto che si senta il bisogno, o che in loro stessi s'instauri il bisogno, di affermare la pari dignità umana dei disabili spingendoli a competere in gare adetiche, con tanto di medaglie d'oro, d'argento e di bronzo. Mi sembra che in questo si manifesti anzitutto il carattere esasperatamente competitivo del mondo in cui viviamo: il fatto che anche «loro» competano come gli «altri», nella forma più esplicita di competizione, quella sportiva, dimostra che sono come gli altri. E invece credo si debba sentire, insieme al rispetto dovuto a ogni saio impegno umano, la tristezza della situazione, l'umiliazione, in definitiva la finzione, l'inganna L'idea di vedere in un uomo privo dell'uso delle gambe un atleta, modello millenario di bellezza e di forza, è una negazione della sua realtà. Cò che ci turba cerchiamo sempre di ignorarlo, di rifiutarlo, di respingerlo. Ieri li chiamavamo storpi, e li ignoravamo escludendoli dalla nostra vita; oggi li chiamiamo handicappati, ma continuiamo a ignorarli, sebbene in modo diverso, illudendoci e illudendoli che non esistano tragiche differenze. La realtà è molto spesso dolorosa, ed è difficile, anche avendo le migliori intenzioni, affrontarla senza ipocrisie. E' difficile avere il coraggio di guardare con occhi natemi chi osa sapere la sua infelicità, che resta tale anche dopo tutti i sacrosanti sfòrzi di ricavarsi un posto alla luce del sole. MASSIMO L. SALVADORI L'articolo di Galbraith apparso su La Stampa mercoledì scorso sotto il titolo Ultimi abbracci ai dittatori conclude così: «Chi resiste alla tentazione di abbracciare i dittatori ha storicamente ragione». Indubbiamente uno slogan per una bella bandiera; ma devo dire che l'idea di fondare la lotta contro le dittature sulla «ragione» o «necessità» della storia non mi convince. Avere «storicamente ragione» è una delle pretese più diffuse; sennonché stabilire chi per la storia abbia ragione è una delle imprese più disperate. Il ragionamento di Galbraith è il seguente. Non è in primo luogo importante concepire la democrazia come un valore, quanto piuttosto capire che essa è un prodotto inevitabile dello sviluppo economico e industriale. Lo scopo per cui il celebre studioso americano afferma con forza questa tesi è quello di criticare duramente la cecità della politica estera americana, la quale, insieme proterva e stupida, ha troppo spesso appoggiato nel Terzo Mondo odiose dittature di destra. Il carattere protervo sta nella bruttezza dell'atto e la stupidità nel non capire che, oltre tutto, la democrazia e il cavallo vincente della storia. La prima osservazione che mi viene da fare è che una teoria della democrazia come forza inevitabile e necessaria dello sviluppo storico giunto a un certo grado di evoluzione ha un sapore molto ottocentesco; ed è una variante delle teorie hegelo-comti ano-marxiane degli «stadi» necessari della storia. La seconda osservazione è che la storia a cui Galbraith chiede di dimostrare la verità della sua tesi pre¬ senta sostanziali controprove, in primo luogo quella offerta dal mondo socialista. E in effetti lui stesso a tirarla in ballo, senza venirne però a capo (poiché sottolineare che anche là vanno facendosi sentire soffi di libertà non risolve molto, in quanto di quei soffi la storia deve ancora leggere rutto il significato e l'approdo). La terza osservazione è che l'invito di Galbraith agli americani a puntare nel Terzo Mondo sul sostegno alle fòrze della democrazia anziché su quello alle forze della dittatura, sembra ignorare che la durezza della storia nei Paesi tormentati del sottosviluppo sta nel porre in alternativa, in molti casi, anche se per fortuna non sempre, non dittatura e democrazia, ma dittatura e dittatura; così che tutto ritoma maledettamente difficile. Purtroppo, la tesi di Galbraith assunta rigidamente (ma egli rigidamente la presenta) si presta persino a un esito opposto a quello da lui voluta Se infatti è vero che la democrazia è frutto sia dello sviluppo economico che della stabilità sociale, là dove persistono sottosviluppo e, conseguentemente, instabilità sociale non può vivere la democrazia. Meglio rinunciare alle «leggi storiche» che, in quanto assolute, finiscono per essere quasi sempre poco udii. E' meglio dire, convenendo qui appieno con Galbraith negli effètti pratici, che i migliori amici dei democratici sono i democratici stessi; e che per questo, ad esempio nel Sudafrica d'oggi, sia i valori e sia gli interessi vogliono che i democratici americani ed europei aiutino i democratici che là esistono in car¬ ne e ossa.

Persone citate: Galbraith

Luoghi citati: Asia, Estremo Oriente, Giappone, Glasgow, Roma, Sudafrica