Dispute sul camaleonte di Agostino Depretis

Dispute sul camaleonte FOGLI DI BLOC-NOTES: DEPRETIS Dispute sul camaleonte NEGLI anni del compromesso storico (più tentato che realizzato) ci fu chi delineo un parallelo fra la nuova inedita esperienza storica dell'Italia e il vecchio trasformismo di Agostino Depretis. In un articolo pubblicato nel 1976 su Le Monde, lo storico inglese che meglio conosce l'Italia e più ha fantasticato sulla sua storia, Denis McSmith, delineava un vero e proprio parallelo fra i due sistemi, ravvisando nella «vocazione ministeriale» del pei di Berlinguer una conferma delle regole trasformistiche inseparabili dalla nostra storia. Gli risposi, proprio sulla Stampa, di no, che non era così. Quel trasformismo era fenomeno diverso, peculiare e connaturato a una realtà limitata e inconfondibile come quella dell'Italia del 1882, etede del piccolo Piemonte del 1852, che aveva realizzato non a caso il connubio. La somma di destra e di sinistra moderata, propria delle esperienze trasformistiche, non era paragonabile alla somma di cattolici e comunisti, credi di storie, anche internazionalmente, diverse od opposte. La riforma elettorale di Depretis non aveva nulla di comune coi movimenti, e i sussulti, di una democrazia industriale di massa come quella italiana. «Trentasei milioni di elettori, erano le conclusioni di allora, non possono essere scambiali coi trecentocinquantottomila cittadini che avallarono il programma di trasformazione dei partiti formulato da Agostino Depretis, nelle elezioni del novembre 1876». Una trasformazione secondo i segni dell'affinità, evocanti lo scientismo. Si trattava di pani ti, o frammenti di partiti, con basi sociali e di cultura convergenti o comuni. OGGI sono cent'anni dalla morte di Depretis. Campione di una sinistra che appare nelle luci di una patetica carolina illustrata, rispetto alle trasformazioni di questo secolo. Sinistra che nulla aveva di marxista, o di protomarxista. Sinistra di origini radicali, con molta, c non tutta buona, letteratura francese, con una forte vibrazione massoni ca. Sinistra ideologica, su cui era passato Mazzini, ma senza mai integralmente dominarla. Perché quella di Depretis è la sinistra subalpina, metà autonomista e metà unitaria, metà vecchio Piemonte metà Italia unita, ma senza il fervore dei consensi liguri o italiani a Mazzini, e senza perdere mai gli accenti piemontesi, gli accenti dello Sta to, della monarchia. Era la sinistra che combatté Cavour senza capitlo. La sinistra che disse «no» alla spedizione di Crimea. La sini stra che si oppose ai grandi e geniali piani del conte per l'unità, fino all'aprile del 1859 (incluso). Non a caso Depretis, il futuro stratega del trasformismo, era stato perfino coinvolto nel più sfortunato dei moti mazziniani, quello milanese del 6 febbraio 1853, con le sentinelle austriache uccise nelle caserme grazie alla complicità del carnevale ambrosiano. Salvo poi obbedire all'ordine di Cavour, nell'estate del 1860, di recarsi in Sicilia a garantire l'annessione del Mezzogiorno al Regno di Sardegna, alle soglie di Teano. Compito realizzato da piemontese, prima ancora che da ex garibaldini e mazziniano. SINISTRA bivalente non solo politicamente, ma anche geograficamente. Depretis era infarti un «suddito» del Regno di Sardegna, che respirava culturalmente e politicamente aria lombarda: e lo era in virtù di una distrazione dei trattati di Aquisgrana. La sua Stradella, con la casa povera e leggendaria, dove morirà il 29 luglio 1887, faceva parte tradizionalmente della provincia di Pavia, l'università dove egli aveva studiato, la città dove aveva formato le sue amicizie politiche, aveva nutrito il suo sodalizio coi Cairoti, aveva alimentato le sue prime battaglie mazziniane e garibaldine. Mortara e Voghera erano quindi, per tradizione, lombarde. Ma il confine geografico obbediva, ai tempi dell'antico regime, agli assolutismi, neppure sempre illuminati, piuttosto che alla volontà della popolazione. Ed ecco questa sacca di italianità lombarda confinata e rinchiusa nei territori piemontesi, quasi a nutrire e favorire il moto unitario. II «Giano bifronte», come lo chiamò un suo awetsario (ne ebbe tanti), riuniva in sé l'Italia di ieri e quella di domani. Ed era, come lo defini Croce, un patriota, un patriota prima di tutto. RICORDO Salvemini, in quella stanza della pensione «Splendor» a Firenze, dove il grande storico riceveva, fra la fine degli Anni Quaranta e l'inizio degli Anni Cinquanta, qualche giovane amico od allievo. Una volta il discorso cadde sul trasformismo. La sua antipatia, anzi la sua insofferenza, verso Depretis aveva qualcosa di carducciano {['«irto spettral vinattier di Stradella»), respirava nel clima di un'Italia antica. Non ho dimenticato una sua frase: «// fascismo non è stato altro che un trasformismo cementato dalle squadre d'azione». LA forte personalità di Depretis — che governò l'Italia per dieci anni — resistette perfino a tutte le accuse di iettatura. Il suo grande avversario, Petruccelli della Gattina, riferendosi al periodo in cui d?. Firenze capitale, cioè da piazza Frescobaldi digradante sulle rive dell'Arno guidava il ministero della Marina, stabilì un'evidente connessione fra il disastro di Li ssa e le sue competenze ministeriali. «Toccò RJcasoli: fece Lassa. Toccò Ratlazzi: fece Aspromonte. Toccò Cairoti: scompigliò la sinistra» Quarantanni fa o quasi tentai sul Mondo di Mario Pannunzio la prima storia del trasformismo. E abbozzai un'antologia degli insulti riservati allo statista operoso ed accorto. Il più cortese risultava Silvio Spaventa: «£' un cesso che resta pulito, sebbene ogni immondezza vi passi». Il più duro Carducci: «Traditore di prinàpi e di uomini». E una serie infinita di epiteti ingiuriosi ci ricorda la potenza del la libertà della polemica poli tica in quell'Italia adolescente, ota che si invocano per gli alti poteri dello Stato diritti di immunità. «Amico delle spie e dei ladri»; «Mago», «affondatore»; «clown», «volpone»; «barbabianca»; «Caino»: nessun appellativo gli fu risparmiato, nessuna ironìa gli fu evitata. E senza mai turbare il suo inalterabile umore. DEPRETIS detestava la politica estera. Francofilo per cultura e per convinzioni, aveva dovuto su bire la Triplice Alleanza (che per un anno non fece ncan che conoscere al Paese). Osti le a tutte le iniziative coloniali, era stato imputato quasi della strage di Dogali nell'estremo autunno della sua vita. Ferdinando Martini racconta che nell'estate dell'85 il se¬ gretario generale al ministero degli Esteri, che doveva di lì a poco assumere la guida del dicastero, salì fino a Stradella per incontrare il presidente del Consiglio che reggeva l'interim degli Esteri. Erano i giorni dell'insurrezione della Rumelia orientale in favore della Bulgaria. Tutte le cancellerie europee erano in grande agitazione. Robilant voleva una direttiva, un'istruzione da mandare alle nostre rappresentanze diplomatiche. «Delle risposte se ne possono dare più e diverse. Al punto che dal prendere una strada o un'altra dipenderà appunto il contegno dell'Italia nelle cose d'Oriente». Così disse il probo e zelante funzionario. Ma il presidente, candidamente: «Non importa. Sono responsabile io». «Bisognerebbe sapere molte cose che non so», gli ribatté Ro bilant con durezza. E allora Depretis scattò con una di quelle battute che erano la forza dell'uomo: «Ma non le so neanche io. Quando mai ho pensato alla Rumelia orientale.'*. E' un episodio che ho raccontato giorni fa all'amico Rinaldo Petrignani, autore di una bellissima storia della politica esteta italiana edita dal Mulino,- che ha per protagonista Depretis anche se sulla copertina porta Crispi. Merita una nota per la seconda edi zione dell'opera: un'edizione che gli auguro di cuore. TROVO nella mia biblioteca un raro opuscolo di Guglielmo Ferre ro, il grande e geniale storico della Roma classica così ingiustamente combattuto da Croce, il giovane srudente che aveva fischiato Carducci, intitolato Le dittature in Italia - Depretis - Crispi - Giolitti ■ Mussolini. E' del 1924; è curato dall'«Associazione italiana per il controllo democratico» Rispecchia la posizione di antifascista che resterà fedele alla sua linea fino in fondo. Ma conferma quanto fossero facili gli equivoci o i qui prò quo in quella generazione, a tutto vantaggio del regime avanzante. Ingiusto l'elenco; assurde le motivazioni. E infondate anche, nel fuoco di una passione polemica aspra, talune previsioni. Ne cito una: «Se / governi di Giolitti, di Crispi, e di Depretis furono deboli, la dittatura di Musso/ini sarà debolissima». Non solo non fu debole ma non fu neanche bteve. Motivo di più per se parare sempre la storia dall'oratoria. Che era proprio la lezione di Depretis. Giovanni Spadolini Casimiro Teja: «Camaleontius Stradellianus», una caricatura di Depretis apparsa nel «Pasquino»