Poveri ma brutti di Stefano Reggiani

Poveri ma brutti QUEI FILM COMICI TRA '40 E '50 Poveri ma brutti Soprattutto d'estate, la tv macina i periodi storici, i decenni, i ricordi con l'impudenza di chi sa di non essere guardata o di esser vista di sbieco. Così nella controra, senza avvertenza per lo sbadato o il più giovane, passano le commedie dei nostri anni difficili, le risate dell'Italia povera e sono svanite prima d'essere identificate. Sono appena passati1 in una serie pomeridiana che mescola disinvoltamente i diversi passati comici, i film di quella speciale zona di confine che sta fra il dopoguerra e gli Anni Gnquanca, le commedie popolari disposte tra il '49 e il '52, le meno nobili, le più dimenticate. Non Totò, oggetto di nuovo sfruttamento nel bene e nel male televisivo, ma i sotto-Totò, i quasi Totò, dove il comico compare per imitazione, come in Bellezze in bicicletta, o per citazione, come nei Pompieri di Viggià ("pompa su e pompa già...»). Non solo i film diretti da Mattòli, anche i trionfi di Simonelli. Perché ne! rivedere i film di quegli anni di confine, non ridiamo con indolente compii' cita, ma ci sentiamo spesso presi dallo scoramento e da una specie di vergogna? Forse perche abbiamo conferma della loro modesta qualità' Perché nessun genere come il comico popolare è deperibile e va consumato entro la scadenza? Al contrario, siamo imbarazzati e insofferenti perché riconosciamo che proprio il comico di confezione, senza divismo e senza ambizioni, è il più vicino al costume e alle fantasie della gente. E l'Italia di quei film non è ipocrita e piccolo borghese come nelle scaltre commedie dei telefoni bianchi, né mette tenerezza per una forma di impacciata sudditanza alla svolta cinematografica del neorealismo. E un'Italia greve che sta sulla porta di non sa che epoca, tra le grandi speranze e le grandi velleità del dopoguerra e prodromi di un decennio torvo e pigro, e la voglia, solo la voglia, del futuro consumismo, è un'Italia col soprabito rivoltato e la risata difficile, è l'Italia della Rivista. Sentimeli tal Chi ha potuto cogliere un lembo di quegli anni, con l'esperienza delle sale di seconda visione, dove il sabato e la domenica s'aggiungeva al cinema l'avanspettacolo, sa che si rideva con fatica e tuttavia senza pretese: la Rivista era il vero segno della differenza tra un pubblico e l'altro, tra gli adulti e i ragazzi. Pochi avevano il privilegio di assistere, mettiamo, agli spettacoli della Osiris; non tutti avevano i soldi o l'età per l'avanspettacolo; pubblico della seconda visone doveva pensare il cinema. Nei Pompieri di Viggiù c'era un riassunto di una rivista con la signora Osiris che cantava Sentimental («Questa notte infinita I questo deb autunno! I questa rosa appassita I tutto parla d'amore...*): lei era vestitissima, ma intorno a lei lo sfarzo faceva posto a giunoniche seminude. E in La paura fa 90 un giovanissimo-Tognazzi non riusciva a distogliere l'attenzione del pubblico dalle gambe delle ballerine. Il riciclaggio televisivo non ha spiegato quella penosa condizione, ma l'ha fatta sospettare con la semplice esibizione delle facce, l'ha fatta ricordare con le passeggiate delle signore in pagliaccetto, che determinavano la severità del Centro cattolico: proibito per tutti. Non c'erano solo i Pompieri e le Bellezze, riproposti dalla tv, a popolare gli schermi comici al principio dei Gnquanta, sarebbe sbagliato non tener conto dei Cadetti di Guascogna («veniam dalla Spagna, andiamo a Bologna*), del Noè della Bisarca, del Capataz, di Marakatumba (ma non una rumba), degli eroi del l'Inafferrabile 12 (antenato del 13 al Totocalcio) e del grido western tramutato in commedia: Arrivano i nostri («-Arrivano i nostri I a cavallo di un cavai I arrivano i nostri I con in testa un general»). Anche facendo l'analisi delle canzoni da film e delle canzonette sciolte, il piccolo spettatore si rendeva conto che correvano anni duri, non illuminati da una speciale perspi cada.. Stava per nascere il festival di Sanremo con Grazie dà fior, un capolavoro rispetto alle nostalgie della canzone filata alla Taioli: «Nel 1919 I vestita di voile e di chiffon I io v'ho incontrato I non ricordo dove I al corso oppure al ballo cotillon...*. Per non dire dell'onesto anotino: «Mentre affili le forbicine I per tagliare la veste nuziale I il tuo cuore sta tanto male...*. Vecchi mestieri, vecchie fedeltà. Guitti, ladruncoli, militari stralunati, contadini, ciclisti imbroglioni, meccanici, poveri diavoli, per fortuna il comico rappresentava il suo tempo; la povertà dei luoghi e dell'arredo, che aveva condensato l'autenticità generosa del neorealismo, nel film comico era il fondale di una tirchieria dell'animo, di un'angustia senza obiettivi proprio mentre si vagheggiava lo sfarzo. Poveri non per essere vai, ma per mancanza di fantasia. La miseria materiale risuscitava una vecchia grettezza, che proprio al confine dei Cinquanta fece blocco nella commedia popolare e nelle canzoni. Era lontana -l'autodifesa rappresentata dai telefoni bianchi, che faceva cercare sotto il fascismo l'alibi di un'immaginaria frivolezza, doveva arrivare il vi¬ talismo della povertà che intravede l'uscita dal terzo mondo (vogliamo dire il '56 di Poveri ma belli}). Il mondo urbano è quasi assente da quell'Italia di confine, fatta di piccoli paesi, insistentemente e ostentatamente contadina, con la sua cerchia di macchiette (la sublimazione sarà poi in Don Camillo), le strade bianche, le rare Topolino, le rarissime Lancia, le preziose biciclette che si portavano dentro casa e anche nel teatro di paese. Appunto per questa povertà dell'offerta, la pigia fantasia dei pubblici periferici d'allora era conquistata dall'ideologia della Rivista come modesto harem della felicità. Era uno sfarzo che sullo schermo risultava incredibilmente spatagnino, costumi cosi cosi, fondaletti di canone, coreografie ridotte alla passeggiata in passerella, scenette cu un'idiozia insultante, canzoni odiose e filate (vedi il quadro su Betta che filava in La paura fa 90). L'unico miraggio vero le soubrettes, le ballerine impacciate con petti prosperosi e ginocchi da terzino che facevano corona a comici e cantanti, spesso svestite in modo che la morale corrente decisamente disapprovava. Silvana Pampanini fu la diva di quegli anni, un sogno popolare, facile da frequentare condividere: non metteva soggezione come la Mangano di Riso amaro, del testo coinvolta in un melodramma sociale assai poco adatto alla trasfigurazione; si offriva con familiarità e abbondanza, raramente una perdizione feticistica, guépière nera e reggicalze, era sembrata tanto a portata di mano. La Pampanini, prima tra le dive che poi saranno chiamate maggiorate, univa la promessa di una devota dedizione a un'esuberanza maliziosa e moderatamente totbida; era tanta per compensare la miseria, era allegra per scacciare la noia. Totò sceicco Con tre ai ini d'anticipo su Gli uomini preferiscono le bionde la Pampanini di Bellezze in bicicletta imponeva il gioco della coppia bruna/bionda, accanto a Delia Scala/Marilyn Monroc D'accordo, il contorno era orribilmente scalcinato, senza un velo di frivolezza, tra corriere, birocci e interni male illuminati, ma la Pampanini apriva col suo pagliaccetto un'alternativa all'immaginazione e, quando travestita da soldato dormiva con la truppa, un blando sospetto d'eversione. Insomma, nell'Italia agricola dei cento paesi, anche alla recluta poteva capitare l'incontro con la Rivista (contrappuntava il soldato Croccolo: «Ah, sì, la rivista militare, io l'ho fatta, che fatica!*). Le battute dei comici nei film popolari al confine del decennio non erano numerose, talvolta affatto assenti, secondo modelli di una conversazione opaca e reticente di cui anche la gente soffriva: toccava alla situazione imporsi e alla maschera darsi da fare, Totò riuscì a rompere la tetra coltre di quegli anni con l'unica battuta che si ricordi, un gioco di parole da Totò sceicco: «Guarda Omar quanti bello». Ma le maschere principianti, il primo Chiari, il primo Tognazzi, il fragile Croccolo naufragavano nei pallidi aneddoti della trama, per i quali adesso si prova un brivido di vergogna, e allora forse di sopportazione, in attesa della Pampanini. «E' strano, dice uno spettatore televisivo, nato al cinema dopo Simonelli, /' veri film drammatici di quell'epoca sembrano i film comici di serie B», E un altro più giovane, con una punta di razzismo: «Sembra una retrospettiva del cinema turco». Non sanno che la spiegazione d'Italia nel passaggio più arduo del dopoguerra è anche in quei film comici, semibui e penosi. Già Fellini Lattuada tentando di storicizzare a caldo il mito della Rivi sa in Luci del varietà in parte lo tradirono in favore di un poetico e patetico avanspettacolo. Per conoscere la tacimi na fòrza di quel mito e degli anni bui che lo ospitarono, non rimane che la sincerità dei brutti film. A loro si può rivolgere il grazie che Nilla Pizzi stava per cantare ai fiori di Sanremo: «... m'han fatto male I eppure li ho graditi*. Stefano Reggiani Delia Scala e Silvana Pampanini in «Bellezze in bicicletta»