Color Medioevo di Enrico Castelnuovo

Color Medioevo MOSTRA DI STATUE DIPINTE A SIENA Color Medioevo Gli uomini del Medioevo amarono e ricercarono il colore più di quanto non si riesca oggi ad immaginare. Le vetrate modulavano la luce, facevano scendere all'interno delle chiese raggi multicolori, creavano sulle pareti sfavillanti apparizioni. Gli smalti, le pietre dure e preziose, i metalli splendenti, le tavole dipinte rilucevano dagli altari. Nei grandi edifici sacri tutto era coperto, perfuso dal colore, non solo le pitture, i vetri, le oreficerie, ma le sculture in pietra e in legno, le mura stesse, i tetti. Il colore riempiva gli occhi e le menti, aveva infiniti significati, rallegrava, esaltava, ammaestrava, permetteva di identificare, di riconoscere, di scegliere. Se non era possibile dominare il buio gli si opponeva il mondo vario e rassicurante del colore. Il tempo ha cancellato molto, le vetrate sono diventate opache perdendo la loro qualità translucida, i blasoni affrescati sulle mura sono stati dilavati dalle piogge, fumi di ceti e di candele, e quindi vapori ben più pericolosi e corrosivi hanno sporcato, corroso, annerito le superfici brillanti. Ed è anche accaduto che non si sia più inteso il senso della policromia, che sia stato raschiato e distrutto il velo cromatico che coptiva le statue come una splendente e sottile epidermide. Adalbert Stiftcr, terso e finissimo scrittore, presiedette il comitato che promosse a metà Ottocento il restauro — e lo spietato spellamento — di un gioiello dell'arte tardogotica, l'altare di Kefermarlct. «Tonalità di base di quest'opera — scriveva Stifter — sono Pace, Grandezza, Santità». Non v'era posto, dunque, per il colore. Un gusto classicheggiante non scorgeva che volgari ed esteriori orpelli nei veli policromi che sembravano nascondere la verità delle forme. Oggi non è più così, set*' bené-alcuni aspetti di questo rigore puro e duro possano resistere ancora. Mi raccontava un restauratore come il consiglio sinodale di una importante chiesa svizzera fosse rimasto sconcertato nel vedere riapparire sui dossali quattrocenteschi del coro coperti da un'antica ridipintura di austero color legno, la gaia policromia originale. «Ne trouvez-vom pas que cela fati un peu catholique?» fu la confessione imbarazzata di uno dei membri del consiglio. ★ * Una splendida mostra aperta or ora a Siena (fino al 31 dicembre) a distanza di quasi quarantanni da quella che, allestita da Enzo Carli in Palazzo Pubblico nel 1949, rivelò la scultura lignea senese, evoca, esemplifica e rivendica la dimensione che il colore ebbe nel Medioevo. Sculture Dipinte si intitola, vi sono esposte una cinquantina di statue lignee accompagnate . da una ventina di pitture e sculture su pietra. Si inizia verso la meta del Duecento, si chiude verso la metà del Quattrocento; tra questi due estremi, tra la Madonna in trono di Sant'Antimo (c. 1260), un'opera umbra che . sembra solennemente emergere da un paliotto dipinto e una drammatica e spazialmente complessa Pietà del Vecchietta (c, 1445), corre il filo della mostra che, grazie all'impegno di Alessandro Bagnoli e dei suoi collaboratori, si dipana sicuro e piano attraverso l'intricato labirinto della scultura medievale sene se. Fino a qualche decennio fa si scorgeva la gloria di Siena soprattutto nella pittura, da Guido a Duccio, da Simone ai Lorenzetti, da Lippo Vanni a Taddeo di Bartolo, al Sas' setta, a Giovanni di Paolo. Sappiamo ora — grazie agi studi di Enzo Carli, di Antje Kposcgartcn, di Giovanni Ptevitali — quanto grande fu la scultura in questa città e quali eccezionali artisti vi lavorarono. Occorrerà ceno non applicare etichette e di' sanzioni troppo ristrette. Gli scultori spesso non furono solo scultori, ma orafi, archi tetti, pittori talora. Landò di Pietro, autore di una delle più arcane ed emozionanti opere della mostra, fu orafo e, come precisa un documento, «homo legalissimus et non solum in arte sua predi'età sed in multis aliis», di grande e sottile giudizio nella costruzione di palazzi, case, vie, fonti. Fu a lui che il Comune affidò la costruzione — mai terminata — del Duomo Nuovo. Giovanni Pisano di cui è in mostra l'intenso e drammatico crocifisso dell'opera del Duomo fu scultore in pietra, legno, avorio, materie preziose e grande atchitetto, il Vecchietta fu scultore e pittore. Anche se il Vecchietta faceva tutto da solo, la creazione di una scultura lignea richiedeva in genere la collaborazione dello scultore con il pittore. L'Angelo e la Vergine dell'Annunciazione di San Gimignano portano iscritti sullo zoccolo i nomi dei loro autori, il pittore Martino di Bartolomeo, lo scultore Jacopo della Quercia, senza alcuna gerarchia. Per la riuscita dell'opera l'apporto dell'uno è altrettanto indispensabile di quello dell'altro. E la scultura lignea diventa così un luogo di integrazione delle arti dove volumi, scolpiti ■ ,c superfici cromatiche si integrano, si completano, si fondono. A voler ora ripercorrere due secoli d'arte a Siena lungo il filo sotteso dalla mostra nelle sale della Pinacoteca si incontreranno molte sorprese, molte insospettate novità tali da cambiare schemi e abitudini. Accanto al crocifisso sublime e veramente monumentale pur nelle sue ridotte dimensioni di Giovanni Pisano e a quelli, che seguono il suo schema (quello di Massa Marittima che il tcstauro in corso potrà rivelare come un'opera autogtafa di Giovanni, quello della Certosa di Pontignano) uno di gtande drammaticità e di profonda e umana commozione va in altra direzione ed è quello mutilo e tremendo di Colle Val d'Elsa accostato al nome di Marco Romano. Una Madonna seduta con il Bambino fieramente eretto sulle sue ginocchia, proveniente da Anghiari, è molto prossima a Tino di Camaino, nella essenzialità delle forme bloccate, nella semplificazione delle superfici; l'elegantissima Annunciata del Museo di Pisa ripropone, alla data del 1321, l'opera di un grande contemporaneo di Simone Martini, Agostino di Giovanni, operoso in tutta la Toscana da Arezzo a Pistoia a Pisa. L'ammirevole e frammentaria testa di Cristo di Landò di Pietro, unico resto di un crocifisso del 1337 travolto dal bombardamento della chiesa dell'Osservanza, ripropone i legami con Simone di un artista chiamato a Napoli dagli angioini come già il Martini e Tino di Camaino. * ★ In questi stessi anni lavorano in pietra Goro di Gregorio e Giovanni d'Agostino di cui non si hanno in mostra opere lignee. Verso la fine del secolo due grosse sorprese, l'anonimo «Maestro del Crocifisso dei Disciplinati» che nell'Annunciazione di Montalcino complica, moltiplica e allarga le pieghe dei panneggi dei suoi personaggi che aspettano solo di essere increspate dal vento dell'imminente «stile internazionale» e Mariano d'Agnolo Romanelli autore delle sculture di quel delizioso monumento che è la Loggia di Piazza, che singolarmente rivisita in modo pungente, singolare e moderno moduli, schemi e cifre di un gotico assai più antico. Irrompe quindi la grande stagione di Domenico di Niccolò (detto «dei Cori»), di Francesco di Valdambrino e di Jacopo della Quercia, solenni personaggi dal passo e dal respiro europei che sanno fondere toni accostanti ed eleganze sublimi, ricordi trecenteschi, riflessioni classiche e suggestioni «internazionali». Quindi gli accenti drammatici e ormai non più gotici del Vecchietta vengono a conchiudere in modo trascinante una splendida mostra. I soggetti sono limitati, gruppi dell'Annunciazione, Madonne in trono, Crocifissi, qualche santo, ma all'interno di queste poche tipologie grandissime le differenze, distanti le soluzioni. Un gesto, una mossa, un panneggio, un'espressione di dolore o di sorpresa, una smorfia, un sorriso caratterizzano i personaggi in modi indimenticabili. La scultura lignea con la sua vivace poiicromi.i, i suoi incarnati naturali, le sue vesti sgargianti, i suoi gesti (l'Annunciata di Castelfiorentino di Mariano d'Agnolo Romanelli ha addirittura le braccia snodabili per mutarne la posizione), le sue espressioni, ebbe un grandissimo potere comunicativo spingendo chi la contemplasse a rattristarsi sulle sofferenze del Cristo, a rallegrarsi per il saluto angelico, promessa e impegno di grazia, a pregare, a meditare, a immedesimarsi con quanto gli stava di fronte. Entro il cavo della testa del crocifisso di Landò di Pietro un piccolo rotulo di pergamena dichiarava: «Domine dio fece scolpire questa croce in questo, legno alando pieri da siena a similitudine del I vero ihu xpo per dare memoria alla gente I de la passione di yesu xpo figluolo didio I et de la beata virgine maria...». Per ricompensa lo scultore chiedeva la salvezza della sua anima ripetendo come una clausola la formula «tu verace croce... rende il detto landò a dio». Anche Duccio aveva firmato la Maestà con una richiesta di vita eterna («alma madre di Dio sii causa di pace a Siena e di vita a Duccio che così ti dipinse»), ma la lunga preghiera di Landò di Pietro scandita dalla clausola «prega la santa croce... che renda el detto landò a dio» ci avvicina con particolare efficacia al mondo e alle intenzioni di uno scultore medievale che quasi timoroso per le proprie capacità avverte, ponendo la data alla sua opera, che la figura fu fatta a simiglianza di Gesù crocifisso «Et lui dovendo adorare e non questo legno». Enrico Castelnuovo lx>ren/o di Pietro detto il Vecchietta. «Pietà» (1445 circa)