La mezzaluna alle porte di Vienna di Mimmo Candito

La mezzaluna alle porte di Vienna COSI' LA TURCHIA CHIEDE L'INGRESSO NELLA COMUNITÀ' EUROPEA La mezzaluna alle porte di Vienna Nel Paese restano i segni d'un sottosviluppo drammatico - E il suo boom demografico è inquietante: nel nuovo secolo un europeo su quattro sarà turco - Ma la modernizzazione procede: le città sono cantieri, l'accelerazione dei consumi è tumultuosa - Dove arriverà la «tolleranza dell'Europa e dei suoi interessi»? DAL NOSTRO INVIATO ISTANBUL — Quando il gen. Evren prese il potere, sette anni fa, in quei giorni di rastrellamenti e di paure clandestine l'unica cerimonia pubblica della nuova sovranità militare fu l'insediamento nei palazzi del governo. In una città incupita da un settembre grigio e umido, lungo strade all'improvviso deserte, le torrette dei caiiaiutati agli incroci ruotavano lentamente il cannoncino ma restavano chiuse sui loro cingoli, come macchine robotiche, senz'anima umana, e i soldati pattugliavano i marciapiedi a due a due con l'elmetto calato fin sugli occhi. Il potere militare non mostrava facce, non aveva identità; era minaccioso e indistinto. E la Turchia ritrovava di colpo una sua perduta natura d'Oriente, indecifrabile, forse anche ambigua. Ne] salone austero e silenzioso scelto per il giuramento, la cerimonia fu breve, rapida, come s'addice a uomini di caserma. Non ci furono fronzoli. Ma nel protocollo che tra stoffe e rasi brillanti conservava comunque qualche vaga ombra di califfi e pascià, la formula di rito letta dal generale fu seguita subito da una musica: e inattese, impreviste, le note potenti della Quinta Sinfonia rimbombarono nell'aria. La scelta di Beethoven valeva quanto un messaggio politico, era la continuità con Kemal. Cercava comunque l'Europa. Il richiamo aveva certamente un valore culturale, ma puntava anche a una conferma di strategie e di alleanze. Lo stesso Evren, oggi generale in pensione e presi' dente di una Repubblica meno illiberale, rimanda la Turchia a cercare l'Europa chiedendo l'ingresso a pieno titolo nella Comunità. Riappaiono però perplessità e resi' sterne, l'omogeneizzazione in economie a diverso livello di sviluppo sembra ritrovare anche l'ombra di una vaga memoria passata, paure sprofondate nella coscienza collettiva dei popoli. Ora che i Turchi riappaiono alle porte dell'Europa, le gelosie nazionali delle piccole patrie della Comunità non bastano a spiegarne la sospettosa diffidenza. Si capisce per i Greci, che hanno vecchi conti da regolare ancora lungo le coste dell'Asia Minore, ma per gli altri non possono esserci solo i bilanci dell'agricoltura o le liste di collocamento troppo affollate. Murat Belge, che vive sulla sponda asiatica del Bosforo, in mezzo a strade polverose perennemente sfondate, si spinge a rassicurare l'interlocutore europeo: .No, no, è inevitabile che ritroviate nel fondo della vostra anima la paura di altri secoli. Noi continuiamo a essere gli Infedeli di un'Europa cristiana assediata nuovamente, in qualche modo, dalle truppe del Gran Visir». •Non siamo arabi, ma siamo pur sempre musulmani. E quando la richiesta di un'Integrazione esce via dall'astratto e si fa una prospettiva concreta, allora la nostra mezzaluna è come se fosse piantata ancora davanti alle porte di Vienna. Certe reazioni non ci sorprendono per niente». Indossa le espadrillas e i jeans, somiglia a mille altre facce che ha la gente dell' Europa; ma dietro casa sua c'è una moschea, e ora si fa sentire la preghiera del muezzin. .Non so fino a dove arrivi la tolleranza dello spirito europeo. O anche la tolleranza degli interessi europel. Ma ne temo un limite troppo stretto: sarebbe gravissimo, e forse farebbe precipitare verso l'Oriente anche le contraddizioni alle quali ancora appendiamo la nostra identità». Il destino degli intellettuali in questa Turchia di transizione resta amaro. Belge non ha riavuto ancora il passaporto; la sua Europa è quella dei ricordi di viaggi di un decennio fa, tra Roma, Londra e Parigi. Recita i nomi di una generai ione che forse allora era avanguardia ma oggi fa certamente parte dell'establishment politico, -il vostro tempo è passato più veloce del nostro. Eppure dovrete aspettarci; o, almeno, spero che lo facciate». Il tempo è andato via lento, in quest'ultima appendice del Continente. Il Pera Palace fa pubblicità elencando i suoi clienti di sempre, Agatha Christie, Mata Hari, la Garbo, Zsa Zsa Gabor, Edoardo Vili, nomi profumati ancora di mondanità e mistero. Ma oggi dal vecchio Pera malinconico di ricordi passano anche i turisti in braghe corte e le calze scure dentro i mocassini. Si ha l'impressione che la Turchia non si sia conquistata ancora una consapevolezza concreta, reale, delle trasformazioni che comunque sono avvenute nel tessuto più stretto della sua società, dove il 46 per cento vive ancora nelle campagne sperdute di una geografia drammatica ma dove anche una rapida e tumultuosa emigrazione di massa ha inurbato in pochi anni milioni di contadini senza più passato. Ancora trent'anni fa, solo 4 milioni di Turchi vivevano in città o paesi con più di 10 mila abitanti; oggi ce ne sono 27 milioni su 54. Almeno la metà delle 45 mila strade che fanno l'intrico urbanistico di Istanbul, 10 o 15 anni fa non esistevano nemmeno. E il paese che si urbanizza ha anche un tasso d'incremento demografico terrificante, il 2,8 per cento: questo significa che è destinato a raddoppiare la sua popolazione in vent'anni o poco più. I Turchi, che nel '50 erano appena 21 milioni, e oggi sono già 54, nel '92 saranno il Paese più popoloso del Continente e diventeranno 100 milioni nel 2005. Quando c'incontreremo col nuovo secolo, un europeo su 4 sarà un Turco: è una nuova invasione, lenta e inevitabile. •Nel 2000 saremo tra l primi dieci Paesi del mondo», assicura comunque il capo del governo Turgut Ozal. E la Confindustria locale esorta a guardare all'Italia e ad assumerne i ritmi di sviluppo della ricchezza nazionale. Grande quasi tre volte il nostro Paese, la Turchia mostra oggi un dinamismo impressionante, con un tasso d'incremento annuo del 6 per cento. Le città sono cantieri, le baraccopoli della periferia di Ankara e Istanbul ammassano speranze e disperazumi. Un popolo di terra sta cambiando pelle nello spazio stretto di una generazione. A percorrerne le lente strade dell'interno, l'altopiano luminoso, le lontane gole deserte del Sud-Est, il fascino intenso di questo Paese si piega dovunque ai segni di un sottosviluppo drammatico; ancora nemmeno tutti i 45 mila villaggi hanno in aria i fili dell'elettrificazione, ed sono strade che restano solo sterrate. E la speranza di vita, in un Paese che pure ha il 40 per cento della sua popolazione al di sotto dei 14 anni, è appena a 56 anni di età. Dice Eli Aciman, il patriarca dei pubblicitari: •I nostri messaggi non raggiungono più di 4 milioni di famiglie. Il mercato finisce 11». Ma l'accelerazione del consumo si fa già tumultuosa, trascinata dai ritmi rapidi dell'inurbamento: in tre anni l'acquisto di elettrodo¬ mestici è quasi raddoppiato, l'anno scorso sono stati venduti 637283 frigoriferi sui 654.732 prodotti, e 104.378 lavatrici sulle 109.033 immesse nel mercato. E per comprare un'automobile la lista d'attesa è lunga quattro mesi. Il Paese si modernizza, cambia rapidamente, la severità di un regime tutelato soffoca le contraddizioni. Playboy viene venduto dentro un casto involucro di plastica opaca, ma i quotidiani sventolano in prima pagina seni debordanti e grandi cosce da Paese povero. L'industria, che fino agli Anni 70 copriva il 36 per cento delle esportazioni, ora ne riempie i tre quarti; però è un'industria ancora arretrata, con scarse economie di scala: il suo settore di maggior successo, quello tessile, che guadagna sui mercati internazionali più di 2 miliardi di dollari, rappresenta poi una realtà frammentata, dispersa, dove solo un quarto dei produttori ha aziende con più di 10 dipendenti. Girando nei vecchi quartieri della città, tra sorrisi cortesi e bicchierini di tè caldo e dolce, si penetra in un mondo di mille bassi napoletani, dove un'umanità paziente, silenziosa, sconfitta, sta costruendo miseramente la fortuna di qualcun altro. Piccoli laboratori bui e intasati perdono il loro profumo d'Oriente nella fatica quotidiana di un popolo che lavora amaro e tira a campare. Il salario minimo è di 40 mila lire turche, in un negozio di corso Cumuryet un paio di scarpe da ginnastica ne costa 66 mila. La moderniszazione tocca e sconvolge valori radicati, costumi familiari, un'etica consolidata dal tempo. E ci sono malumori che si fondono nella ripresa dell'integralismo religioso. Qualcuno parla con insistenza di un Mercato comune islamico, un Mie da preferire al Mec, dove la Turchia avrebbe la leadership di una tecnologia già avanzata e del suo sterminato mercato di braccia; non sono voci senza credito, toccano perfino il governo e lo staff del primo ministro. Europa e Oriente tornano a essere, entrambe, opzioni aperte. Ma, a viaggiarci dentro, alla fine in questa Turchia tentata contemporaneamente dal nuovo e dal vecchio si ritrovano immagini, fotogrammi, gestualità dell'Italia contadina dei primi Anni 50: le stesse facce di terra e di sole, le stesse piccole fabbriche di un'avventura selvaggia, {'abilita dei furbi che saranno presto pescecani, i ragazzi venduti al mercato del lavoro per 20 mila lire turche (28 mila delle nostre lire); e poi lo sfascio delle vecchie culture tradizionali, la famiglia che si va perdendo, forse un Rocco con i suoi fratelli, la religione che cementa il passaggio del tempo. Una generazione pagherà il prezzo della trasformazione, forse anche due. E' una trasformazione che appare comunque ormai fortemente avviata, a meno che l'Europa, le sue paure, i suoi interessi, chiudano le porte di Vienna. Ma questa volta la resistenza sarebbe forse una sconfitta. Mimmo Candito a Istanbul. Folla tra le insegne del Bazar: in tre anni l'acquisto di elettrodomestici è quasi raddoppiato (Foto G. Neri)