Romano: Siamo maturi per discuterne di Sergio Romano
Romano: Siamo maturi per discuterne Romano: Siamo maturi per discuterne Mi spiace che alcuni funzionari della Farnesina abbiano visto riferimenti personali nelle mie considerazioni sull'educazione meridionale. Non ho fatto questione di persone. Ho fatto questione di'cultura professionale, esperienze sociali, ambiente econòmico. Se avessi fatto questione di persone avrei dovuta affrontare il terreno infido delle valutazioni personali, sommare talenti secondo criteri incerti, definire con esattezza che cosa si debba intendere per «meridionale». E avrei dovuto dire, ad esempio, che i siciliani della politica estera italiana — da Crispi a Antonino di San Giuliano e Salvatore Contarmi — mi sono sempre parsi assai più «prussiani» che «borbonici», secondo il significato corrente e volgare dejle due paròle. Avrei fatto in altre parole un discorso generico, impressionistico e inutile. Mi è parso più utile ricordare, «con tutte le ingiustizie e approssimazioni che carat terizzano quésto genere di esercizi», che lo stile d'una istituzione dipende in ulti ma analisi dalla somma del¬ le culture di coloro che ne assicurano il funzionamento su un lungo arco di tempo. Abbiamo avuto per alcune generazioni una diplomazia multiregionalc con apporti di culture diverse e un alto grado di rappresentatività nazionale. Rischiamo di avere una diplomazia in cui le regioni settentrionali saranno pressoché assenti. E' una prospettiva che non mi piace. Appartengo al numero di coloro che arrossivano, vent'anni fa, quando si leggeva sui giornali dell'accoglienza scostante e ostile che alcune città dell'Italia settentrionale, fra cui Torino, riservavano talvolta agli immigrati meridionali. Dovrei forse ignorare per questo che l'Italia resta ancora, per molti aspetti, un Paese «multinazionale», secondo un'espressione di Giuseppe Galasso in un bel saggio pubblicato qualche anno fa dalla Utet? Dovrei ignorare che un piemontese o un lombardo, mettendo piede a Napoli per la prima volta, provano uno shock culturale non minore di quello che provarono Rocco e i suoi fratelli scendendo alla stazione centrale di Milano? So perfettamente che di questi argomenti, negli anni formativi dell'unità nazionale, era sconsigliato parlare, come accade ancora in Svizzera per i rapporti etnici, religiosi e linguistici fra le diverse «nazioni» della Confederazione. Tuttavia mi è sempre parso tartufesco che in un Paese come il nostro, dove le differenze fra Nord e Sud sono argomento di conversazione quotidiana, non si potesse scriverne con serenità e franchezza Dopo 126 anni di esperienza unitaria dovremmo poterci permettere una maggiore spregiudicatezza e un minore conformismo.^ Ai funzionari della Farnesina che hanno firmato questa lettera capiterà, prima o dopo, di lavorare in un Paese in cui l'Italia è oggetto di critiche giuste e stereotipi convenzionali. Saranno pronti a parlarne o preferiranno' il «silenzio stampa»? Sono d'accordo con i docenti dell'Università di Torino quando sostengono che il programma di preparazio¬ ne al concorso diplomatico dovrebbe , assomigliare di più al programma di studio per altre carriere internazionali. Sono un po' meno d'accordo con Cesare Merlini quando parla di «diplomazia dell'interdipendenza» e del negoziato che si traduce in un successo per tutti. Credo che le relazioni diplomatiche rimangano conflittuali e che all'«interdipendenza» possa adattarsi una frase di Bismarck sull'Europa: «Ho trovato la parola Europa sulla bocca di uomini di Stato che vogliono ottenere da una potenza straniera ciò che non oserebbero chiedere in nome proprio». Ma penso che Merlini abbia certamente ragione quando constata che le aree del negoziato si sono moltiplicate e, implicitamente, che un diplomatico deve avere dimestichezza con problemi riuovi (finanza, trasporti, informatica, spazio, brevetti industriali, turismo), anche per meglio coordinare l'azione di tutti coloro che hanno, come egli scrive, una «strategia internazionale». Ma sarà bene tener presente che allo stato attuale delle cose una riforma radicale del programma di preparazione, per rispondere a queste esigenze, finirebbe per danneggiare — e questo si mi parrebbe ingiusto — i giovani delle province meridionali costringedoli a completare altrove l'educazione e la formazione necessarie. Non ho parlato nel mio articolo di «determinismo geografico», ma delle strutture educative e dell'ambiente economico da cui un giovane ricava gli elementi della sua formazione. Offendere la sensibilità altrui mi è sempre parso gratuito e volgare. Se dovessi riscrivere il mio articolo tenterei di correggere qualche provocazione. Ma temo che potrei soltanto ripetere con altre parole gli stessi concetti. Eliminerei tuttavia quel cenno all'italiano come «lingua appresa» che è certamente spiaciuto ai mici interlocutori della Farnesina Ripensandoci, questa è una constatazione che può essere equamente distribuita su buona pane d'Italia. Sergio Romano
Persone citate: Cesare Merlini, Crispi, Giuseppe Galasso, Merlini
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