Levi e gli ingiusti di Primo Levi
Levi e gli ingiusti n Levi e gli ingiusti n SERGIO QUINZIO Ho incontrato Primo Levi una sola volta, quando mi ha genrilmente aiutato a «intervistare» Elie Wiesel, un altro ebreo che era stato con lui nello stesso campo di sterminio, e che come lui era tornato dai luoghi dell'orrore per non dimenticarli più, come lui terrorizzato dall'idea che potessero essere dimenticati. Ricordo i loro volti, i loro occhi, che li rivelano appartenenti a una specie umana diversa da quella documentata da altre immagini che ci vengono mostrate tutti i giorni, e più di sempre in questi giorni di risse fra partiti. Senza disprezzo per nessuno, davvero due specie diverse di uomini. Gli antichi pagani dicevano che esiste una sola strada per entrare nel mondo, ma tante per uscirne. Per i pagani antichi e nuovi il suicidio è, in certi casi, una possibilità da prendere seriamente in considerazione. Ma sono certo che Primo Levi non ha mai pensato in questi termini. E che quindi non si è dato la morte «ragionevolmente»1, come il razionalista che era, come l'uomo di scienza che era, avrebbe forse potuto fare. Nelle pagine di / sommersi e i salvati già l'epigrafe, da Coleridge, parlava di agonia: «Da allora, _a un'ora incerta, quell'agonia ritorna». E' ritornata l'ultima volta, per vincere definitivamente, la mattina di quel giorno. Ancora una vittima dei lager, si è detto. Si, ma molto più una vittima del bisogno di giustizia, di assoluta giustizia. Levi rifiuta di perdonare gli aguzzini, soprattutto perché arretra di fronte alla degradazione che hanno inflitto alle loro vittime trasformandole, per qualche miserabile privilegio, in «corvi del crematorio», che trascinano ai forni cadaveri dei compagni assassinati rendere inumani è peggio che uccidete: Ma gli aguzzini rifiuta an che di giudicarli, perché non possiamo mai essere sicuri del nostro giudizio, non sapendo che cosa si nasconde dietro l'oggettiva enormità della colpa. Giudicare è facile, e in fondo è abbastanza facile anche perdonare, come l'inquieta coscienza ebraica, in Levi, in Wiesel, in Lévinas, non si stanca di sospettare. Ma camminare senza entrambe le stampelle, per chi già si trascina a fatica tra gli orrori del mondo, è impossibile. Al «suicidio etico» di Primo Levi non saranno certamente mancate occasioni particolari, ma lu radice sta nell'impossibilità di vivere, nell'insostenibile vergogna di accettare, per il solo fatto di vivere, un mondo tanto ingiusto da deglutire e dimenticare come «normali» ingiustizie alle quali è impensabile, per il giusto, sopravvivere. Nei campi, «sopravvivevano i peggiori, cioè i più adatti; i migliori sono morti tutti». Si può sopravvivere solo a prezzo di diventare empi, come nei lager i «corvi del crematorio». Primo Levi non era credente, e non voglio tare nessun tentativo di appropriazione. Ma della non fede di Primo Levi si deve dire quel che Dostoevskij ha detto dell'«atco assoluto»: «Sta sul penultimo gradino della fede perfetta». E' troppo comune, infatti, una fede che rende comodamente giustificabile, in quanto governato dalla Provvidenza, il mondo con la sua spaventosa ingiustizia.
Persone citate: Dostoevskij, Elie Wiesel, Primo Levi, Wiesel
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