Ebrei d'America

Ebrei d'America FOGLI DI BLOC-NOTES Ebrei d'America . Ó ALA Humphrcy». E' \\ >wj wtta P°P°lata di ritratti del leader democratico del Congresso negli Anni Sessanta e vicepresidente di Johnson durante la tragedia vietnamita. Con quella espressione cordiale e anche un po' sorniona, ammiccante ma sempre bonaria, in uno straordinario grattacielo di New York che domina, con le sue enormi vetrate, la baia della metropoli: a poche centinaia di metri, maestoso e sempre un po' accigliato, l'edificio del palazzo di vetro delle Nazioni Unite. E' l'omaggio che gli ebrei americani — quasi metà degli ebrei di tutto il mondo — continuano a tributare allo statista statunitense, complessivamente sfortunato, che nel luglio 1948, candidato alla presidenza Truman, riuscì a imporre-al vecchio «Democratic Party» la linea dell'integrale eguaglianza razziale che i democratici degli Stati del Sud continuavano a contrastare, quasi ricollegandosi alla guerra civile di un .secolo prima. Siamo nella sede dell'«American Jewish Committee», dov'è organizzata — fine di febbraio — una colazione in mio onore. Per la mia posizione sul terrorismo, in ricordo della mia linea sul caso Abbas (occhieggia, fra le immagini attaccate alle pareti, un ritratto di Leon Klinghóffcr). Oltre un centinaio di personalità presenti; sedici associazioni rappresentate. «Q fL'ALI sono i rapporti fra il Comi. tato ebraico americano e il Congresso mondiale ebraico?»: domando al rabbino Ellenoff, che funge da padrone di casa insieme col rappresentante dell'«Antidefamation League» (nata per gli stessi fini di controffensiva contro l'antisemitismo dilagante nei primi anni del Novecento). Ho ben presente, per aver partecipato al congresso di Gerusalemme nel gennaio 1986, la potenza di quella specie di «concilio» ebraico, di convenzione di tutte le comunità israelitiche: comunità che trascendono di tanto i confini e le dimensioni dello Stato di Israele, che non si riconoscono tutte, e neanche soprattutto, nel sionismo, cioè nell'identità patria-fede. «Nessun rapporto»: mi risponde con orgoglio il rabbino. «Noi siamo autonomi. Siamo nati prima (nel 1903, mi spiega) e restiamo fedeli al nostro programma, di protezione di tutti gli ebrei americani, disseminati nell'intera Confederazione. Il congresso è altra cosa; ha altre strutture; dispone di altre rappresentanze». Capisco che ho toccato il tasto più delicato, nell'ecumene ebraico. Me lo fa notare l'amico ambasciatore Petrigna™, che siede al mio fianco. Questo comitato ha oltre ottantanni di vita alle spalle; è il più vecchio, il più compatto. Non accetta mezzadrie, né subordinazioni. Incarna tutto l'orgoglio degli ebrei americani, «cofondatori» della Confederazione, partecipi della grande costruzione federale degli Stati Uniti, con lo slancio universalistico della loro razza, con lo spirito di tolleranza connaturato alla loro storia (e nato dalle tante persecuzioni sofferte). LJ «AMERICAN Jewish , Committee» è sorto, soprattutto, per difendere gli ebrei dall'oppressione della Russia zarista, appunto, ai primi del Novecento. E si capisce che l'ap plauso più caloroso, più insi stito sia riservato a me quando parlo del sacrosanto diritto degli ebrei sovietici «La ripresa delle relazioni diplomatiche fra Mosca Gerusalemme — è il senso del mio intervento — ha come premessa necessaria la riapertura delle frontiere so vietiche agli ebrei che vogliono raggiungere Israele, L'ho detto a Gerusalemme, l'ho detto a Tel Aviv, l'ho detto a Baltimora, e sono lieto di dirlo a New Ycrk. E nessuna conferenza internazionale sul Medio Oriente si potrà fare finché non si sarà sciolto questo nodo». ONO centoventicin) que le associazioni «s,, ebraiche americane, fra grandi e piccole», mi spiega, con dovizia di particolari, il rabbino Sodcl, l'altro padrone di casa. E tutte sono autonome; obbediscono a realtà locali, spesso capillari e inconfondibili. Non accettano poteri centrali, vincoli di natura chiesastica. Esprimono il pluralismo americano, e anche il pluralismo giudaico. Chiedo l'elenco. E intanto mi danno cortesemente la lista delle sedici associazioni rappresentate alla colazione. Ne cito a caso qualcuna: «Zionist Organization of America», «Synagogue Council of America», «Women's League for Conservative Judaism», «New York Board of Rabbis», «Labor Zionist Alliance», «Rabbinical Assembly». Un paesaggio complesso e variegato. «c OME si spiega tanto appoggio del mondo ebraico a Reagan?»: domando a un altro dei commensali. La tradizione della minoranza ebraica coincide per tanta parte con la parabola del partito democratico, il partito delle minoranze razziali, della minoranza italiana, delle minoranze povere, della stessa minoranza israelitica: il partito di Humphrey, appunto. «Era così fino a vent'anni fa, fino alla vicepresidenza di Humphrey», mi risponde il rappresentante di un'importante associazione ebraica cui avevo rivolto il quesito. «Oggi tutto è diverso. Larga parte della finanza ebraica è repubblicana. Il mondo californiano — che attornia il Presidente ha in molta misura ascendenze israelitiche. Taluni collaboratori di Ronald sono ebrei». E aggiunge un'altra osservazione: «Sono lontani i tempi in cui il giovane, avvocato Rabb (attuale ambasciatore degli Statt-Uniti-a-Rom»r-tnttrnÌ4si-mo di Reagan) era uno dei pochi repubblicani che partecipavano alle riunioni del comitato». Sì: quei tempi sono molto lontani. ' O spirito di Humphrey f— che andava sempre contro-corrente e infatti non guadagnò la Casa Bianca - è rimasto nella sala del«American Jewish Committee». La tutela sacra delle minoranze, anche a costo di essere colpiti o feriti; un ebraismo come universalismo e come tutela intransigente dei diritti civili, dei diritti umani, contro ogni sopraffazione e oppressione, secondo un timbro ben diverso da quello che risuona nello Stato di Israele e nei suoi ben circoscritti e severi confini. Lo dimostra il dibattito che si accende dopo il mio saluto (tispondo ai due brindisi di Ellenoff e di Sodcl ricordando che anche in Europa ci sono uomini politici disposti a anteporre i valori j, coscienza alle posizioni di compromesso, cito Benedetto Croce, per cui una messa vale più di Parigi). Avevo auspicato una convenzione universale contro il terrorismo, con la partecipazione dell'Unione Sovietica. Mi ero riferito al modello delle Nazioni Unite che quasi mi guardavano dalle vetrate. La prima domanda è: «Ma non c'è il rischio che questa convenzione danneggi i diritti acquisiti da tutte le minoranze, non soltanto da quella ebraica, in tutti gli Stati civili?». Ecco la mia risposta: «Non direi che chi trattiene in questo momento in ostaggio alcune decine di europei o di americani nel Libano obbedisca a nessuna legge di minoranza, che debba essere tutelata». La mattina precedente, alla Casa Bianca, il presidente Reagan mi aveva detto: «Non ho notizie degli ostaggi del Libano. Ho solo speranze». AL New York Times, dopo un cordiale colloquio col direttore, Arthur Ochs Sulzberger, erede di una dinastia di editori-direttori, mi soffermo qualche minuto sulla galleria di ritratti. Tutti raccolti, e ordinati, nella stanza, non elegante, neanche tanto spaziosa, dove riceve. Imbottita di pelli che ricordano i vecchi divani del Corriere albertiniano, copiato non a caso dal Times di' Xohdra;-«he-«ra-modcllo a-tuttoil mondo. Guardo le foto più vecchie. Mi pare che la più vecchia di tutte sia quella di Teodor Herzl, il fondatore del sionismo con dedica al capostipite della dinastia. Mi soffermo sulla data, 1903. E' lo stesso anno in cui nasce l'«American Jewish Committee». In quell'immagine, perfino appannata e malinconica, si riflette tutta la potenza e anche tutta la coerenza degli ebrei americani. Giovanni Spadolini

Persone citate: Arthur Ochs Sulzberger, Benedetto Croce, Comi, Giovanni Spadolini, Herzl, Johnson, Rabb, Reagan