Con Muti Alceste diventa umana
Con Muti Alceste diventa umana Alla Scala Fopera di Gluck: Plowright regale e spontanea, ma contestata Con Muti Alceste diventa umana Svuotati i toni epici, l'orchestra palpita con tante sfumature e timbri delicatissimi: lo spirito dell'elegia distende il suo velo su tutto in una raffinatissima ma un po' rischiosa unità di tono - Anche per il regista e scenografo Pizzi approvazione moderata MILANO — Anche la Scala ha reso omaggio al bicentenario gluckiano con un nuovo allestimento di Alceste: direttore Riccardo Muti, regia, scene e costumi di Pier Luigi Pizzi, protagonista Rosalind Plowright. L'accostamento a Gluck da parte degli ascoltatori contemporanei e degli esecutori che dovrebbero ricrearne, oggi, il messaggio è sempre pieno d'incognite. Come ricuperare, dopo due secoli, la forza di quelle idee in cui Gluck credeva, e che la sua musica realizza in un prodigio di compenetrazione di «arte» e •filosofia»? Perché qui sta il segreto di Gluck: nell'aderire con lo slancio di un • barbaro» (cosi lo definiva Metastasio) ai grandi temi dell'illuminismo, nel mettere la sua forza vitalistica al servizio di quella polemica filosofica cui Rousseau, Diderot e gli enciclopedisti aderivano con la forza delle parole: Natura contro artificio, ragione contro superstizione, civiltà contro barbarie e cosi via. Sottratta all'attualità del suo contesto storico e ideologico la musica di Gluck, che suscito nel Settecento polemiche furibonde, oggi è sola nel sostenere tutto il peso della comunicazione col pubblico. Ma come renderla? Accentuandone la potenza e la forza, per recuperare dopo due secoli l'effetto che faceva sui contemporanei, si ha paura di cadere in antistoriche forzature pseudoromantiche. D'altra parte sottolinearne il velo di compostezza neoclassica e marmorea rischia di raffreddare il tutto in un monotono accademismo. Muti sembra avere scelto una terza via, molto affascinante e suggestiva: quella della umanizzazione di personaggi e situazioni, una via mozartiana a Gluck. per cosi dire, che consiste nel trasformare la regina Alceste in una donna sofferente e accorata, non tanto «slmbo- lo» dell'amor coniugale, quanto umanissima sorella di tutti noi. Questa impressione è data dalla superba, concertazione del direttore: mai sentita l'orchestra di Gluck palpitare con tante sfumature, continui turgori di crescendo-decrescendo. fioriture arcadiche di timbri delicatissimi (gli intrecci del legni avvòlti-, come tenui e carezzevoli ghirlande intorno alla voce della regina). Mai sentiti 1 cori del primo e dell'ultimo atto cantare con tanta Intensità: ad ogni ripresa della medesima stro¬ fa piccole sfumature rinnovano l'impressione dell'ascoltatore e la «verità» umana del sentimento. Ma è una Alceste quasi completamente svuotata di toni epici e di impennate tragiche: lo spirito intimista dell'elegia distende il suo velo su tutto, smussando 1 contrasti in una raffinatissima ma un po' rischiosa unità di tono. Rosalind Plowright, dagli ottimi mezzi vocali, raccoglie esattamente l'idea di nobiltà che caratterizza il canto di Alceste e ne fa una donna dal portamento Insieme regale e spontaneo: se non è riuscita a commuovere fino in fondo sul piano espressivo e ha sacrificato un po' l'aspetto eroico (non necessariamente retorico) del personaggio, uniformandone l'espressione, non si meritava tuttavia le grossolane contestazioni con cui l'ha accolta alla fine un loggione stranamente sovreccitato. Anche lo spettacolo di Pizzi non ha avuto un'approvazione incondizionata (ma che cosa vogliono questi che, poi, si proclamano magari amici dell'opera?). Il classicismo palladiano rivisitato per l'occasione da Pizzi con mano maestra ha creato attorno alla tragedia un ambiente elegante e nobilissimo, privo di freddezza accademica ma, anzi, singolarmente partecipe al dramma della regina. La linea curva che domina queste candide architetture disposte attorno ad una rotonda centrale, semovente e ruotante su se stessa, toglie efficacemente alla scena la rigidezza di forme tropo squadrate. Molto belli sono i costumi, neri per 11 coro in lutto, bianchi per il popolo in festa e per la regina Alceste, rossi amaranto per i sacerdoti. La regia è sobria ed elegante, anche se sacrifica un poco l'aspetto mlmico-coreutlco previsto da Gluck e dal librettista Calzabigi: il coro dovrebbe muoversi di più nei gesti della danza pantomimica, secondo una consuetudine dell'opera francese, modello di Alceste, contribuendo cosi alla varietà e alla •presenza» teatrale dello spettacolo. L'orchestra ha suonato benissimo e splendido è stato 11 coro diretto da Giulio Bertola: gli altri cantanti, Giuseppe Morino (Admeto), William Matt e uzzi (Evandro), Anne Sofie von Otter (Ismene), Ernesto Gavazzi (Apollo), Alberto Noli (Gran Sacerdote), Gian Carlo Boldrini (Un banditore), Aldo Bramante (L'oracolo) e le due vici bianche di Giuseppe Imperato e Giuseppe Cogitati (Eumelo e Aspasia) hanno svolto adeguatamente il ruolo di comprimari in un'opera dove i personaggi sono In pratica solo due: Alceste e il coro. Paolo Gallarati Rosalind Plowright in un momento dello spettacolo: ha ottimi mezzi vocali, raccoglie esattamente l'idea che caratterizza il canto di Alceste
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