Vivere a Betlemme

Vivere a Betlemme FOGLI DI BLOC-NOTES Vivere a Betlemme «L' 9 AUTONOMIA che a riconoscono gli israeliani è quella della raccolta di immondizia). E Guanto mi dice, nella sua casa i Betlemme — arredata con un certo civettante gusto piccolo-borghese, con qualche ricercatezza ed anche eleganza — il sindaco di Betlemme, Elias Frelj. Rappresenta l'ala di gran lunga più «collaborativa», più moderata dei palestinesi d'osservanza antiariana; è sindaco in «prorogarlo» da molti anni, ma una volta rieletto anche nel regime di occupazione militare isrealiana. Rispettato da tutti, amato da tutti. Con una vena di ecumenismo generoso (è un arabo cristiano, di rito ortodosso): chissà perché mi ricorda un po\ nel suo entusiasmo, nella sua dedizione, anche nel suo altruismo, La Pira. L, AVEVO già incontra, to nel mio precedente viaggio in Isralcle, nel gennaio '86, in occasione del Congresso mondiale ebraico. Allora.nel suo ufficio, proprio nella piazza principale di Betlemme, ,di fronte all'intreccio concorrenziale delle confessioni cristiane: un ufficio spoglio, scabro, «gelido» (in tutti i sensi), con un'aura di piccolo fortilizio riparato dagli insondabili piani del terrorismo. Punta a stabilire una specie di rapporto peculiare, privilegiato, fra Betlemme e l'Italia. Mi propone un gemellaggio con una città italiana ispirata agli stessi princìpi di universalismo e di spiritualismo: gli suggerisco Assisi. E, in una chiave quasi pancristiana, mi porge un dono che mi commuove come laico. Un tabernacolo di legno, con la parte frontale tutta intarsiata di madreperla. «£' fatto interamente da artigiani locali»: mi dice ricordandomi gli artigiani della Toscana o dell'Umbria, quasi. nello^.spirit.o del gemellaggio {*geote ftgpsra»: ma io gli contrappongo -le ■ grandi ^asformazioni, anche edilizie, che Betlemme ha avuto in questi dieci anni: quale desolazione e squallore agli inizi degli Anni 70!). L'interno presenta in rilievo — con pieno rispetto della prospettiva — due scene distinte. L'ultima cena in alto; lai nascita del Bambino Gesù in basso, nel classico presepe, ma non nella grotta sostituita dalle arcate della Chiesa, appunto, di Betlemme. Variante non casuale. E neanche secondaria. IN un anno il pessimismo del Sindaco si è accentuato. La coabitazione con le pijù difficile: nonostante l'apertura di Peres,.chc è venuto à Betlemme per il Natale dell'85, seguito da Shamir in quello dell'84 E la casa di questo arabo, che è amico di Arafat, è popolata di immagine di Hcrzog che lo ha rice¬ autórità israeliane si è fatta-] vuto recentemente come capo dello Stato. Una panoramica retrospettiva. Anche la formula dell'«Autonomia» ipotizzata a Camp David, per i territori palestinesi, poteva avere un senso, purché fosse stata seguita da qualche passo concreto e immediato. Invece tutto si bloccò e poi vennero l'invasione del Libano, l'operazione Galilea (Peres mi dirà in confidenza: *Una data che è meglio dimenticare*). Nell'82, una nuova proposta degli Stati Uniti per l'autonomia: «In quattro ore Israele rifiutò». «Gli ebrei hanno la loro patria; anche noi dobbiamo averla». La filosofia di questo Sindaco è semplicissima, quasi elementare: «Sogno una pace fra gli arabi e gli ebrei che vivono a fianco gli uni degli altri, liberi ed eguali». «Ma gli insediamenti, insiste Frelj, rischiano di cambiare tutto. E rischiano di non lasciarci sopravvivere». Il tema che più angoscia il Sindaco di «lemme e l'acqua. «Non àbramo l'acqua per l'agricoltura, e in Israele ne hanno per ogni albero. Io spendo cento dollari al mese per l'acqua. Come immaginare un futuro per questo paese?». I A sola speranza, fervida, insistita di Frelj, si appunta verso il piano di sviluppo e di assistenza ai terrirori occupati formulato dal governo di Giordania, in sostanziale intesa con Israele. Gli confermo l'appoggio dell'Italia. «E' la sola via d'uscita; elevare le condizioni di vita delle popolazioni arabe per preparare il futuro, la federazione giordano-palestinese». E quando gli ricordo l'incertezza di Arafat sul piano giordano, un'incertezza che rasenra l'opposizione, il Sindaco sbotta, con la sua scoppiettante sincerità: «Arafat non può non opporsi. Si oppone a tutto: ma le popolazioni palestinesi vivono, e debbono vivere^ finche al di là dei [j1 RELJ e pronto ad accettare la federazione; i sei esponenti, palestinesi, che vedo poco dopo nella palazzina raccolta e dimessa del consolato generale d'Italia a Gerusalemme (senza ambasciatore, senza rappresentanti ufficiali: è la condizione, riconosciuta e comprensibile, del galateo israeliano), insistono invece sulla confederazione. Appaiono più circospetti, più diffidenti. Sono nomi grossi: comprendono il Sindaco di Gaza, Rashad Shawa (le condizioni a Gaza sono peggiori che in Gsgiordania), l'ex presidente della Camera giordana Hi-] kmat El Masri, che ha cono¬ sciuto il nonno di Hussein ad Amman, l'ex Sindaco di Hebron, Mustapha Natche, esponenti dell'ala j moderata dell'Olp, come il presidente dell'associazione degli avvocati di Gaza, Faez Abu Rahmeh. «No» federazione, ma confederazione»: mi correggono quando accenno all'ipotesi federativa. E si capisce il perché. La confederazione lascia molto maggiore autonomia al nucleo palestinese, fino quasi a configurarla come uno Stato. A quel punto domando: «Ma fé un'ala dell'Olp che vuole lo Stato tout court?». «Sì, mi si risponde, ma non è maggioritaria». MOLTO maggiore scetticismo, negli esponenti palestinesi incontrati a Gerusalemme, sul piano giordano. «Accettiamo l'assistenza, rifiutiamo lo sviluppo». Anche qui è evidente il perché: un piano a lungo termine finirebbe per rendere definitivo il duopolio fra Israele e Giordania. I palestinesi rifiutano Israele, ma non si indentificano con la Giordania. E perciò parlano sempre della loro «diaspora». Quasi con l'orgoglio degli ebrei. Il solo, vero punto d'incontro con gli antagonisti. C9 E' un nodo sul quale tutti gli esponenti palestinesi convergono: la necessità di una conferenza internazionale sul Medio Oriente, estesa all'Unione Sovietica. Gli amici di Arafat pensano anche che sia la sola via per bloccare la Siria, grande nemica, insieme, di Arafat e di Israele. «Ma bisogna rifare pace fra l'Urss e brade»: dico ai miei interlocutori. Nessun governo di Gerusalemme reggerebbe un'ora a una trattativa con Mosca che prescindesse dal soddisfacimento dell'esigenza preliminare di riaprire le frontiere di Israele agli ebrei sovietici. Shimon Peres, quando lo incontro al ministero degli Esteri, è perentorio in materia. Ed è il solo fra gli statisti israeliani che esprima un «sì» di massima alla conferenza, sia pure a quella condizione. 1 » bmS&S* paesaggi ^qr, litico israeliano, è diviso. Il primo ministro Shamir è. scettico, anzi ostile. Riservato il capo dello Stato. Perfino la colomba Abba Eban non si pronuncia, non ha speranze, o meglio non coltiva illusioni in materia. «Ma nel 74, incalzo, l'Unione Sovietica non ha accettato la formtda di Ginevra?». «Allora c'era Kissinger, mi si risponde maliziosamente, * la conferenza era soprattutto uno spettacolo, una parata preconfezionata. Tutto andrebbe precostituito, come a teatro». Ma è un teatro difficile. In ogni caso Israele vuole trattative bilaterali, prima della grande messa in scena finale. E' in gioco la sua sicurezza, la sua stessa .vita. Una serie di prologhi, o di atti differenziati, prima dell'atto conclusivo. Ecco perché i pa lestincsi sanno che l'attesa non sarà breve. Giovanni Spadolini