Un'idea dì democrazia di Alfredo Frassati

Un'idea dì democrazia «LA STAMPA» COMPIE CENTOVENTANNI Un'idea dì democrazia La Stampa compie centovent'anni. Per l'occasione, Valerio Castronovo sta per pubblicare presso l'editore Franco Angeli un saggio in cui racconta la storia del giornale dalla fondazione al 1925. Allo storico abbiamo chiesto un breve profilo generale di Quell'intenso periodo. Quando iniziò le pubblicazioni il 9 febbraio 1867, La Stampa si chiamava Gazzetta Piemontese e tale rimase il suo titolo sino al 30 marzo 1895. Nelle intenzioni dei fondatori, Vittorio Bersezio e Casimiro Favalc (il primo assai noto per la sua attiviti di romanziere e commediografo, il secondo titolare di uno stabilimento tipografico e poi deputato), il quotidiano avrei >be dovuto «rappresentare le opinioni e gli interessi delle antiche province» dopo il trasferimento della capitale da Torino a Firenze, avvenuto nel settembre 1864, che aveva lasciato un pesante strascico di risentimenti e di polemiche. La «Convenzione di settembre» era parsa infatti una prova di asservimento alla Francia e un'implicita rinuncia a' Roma e al completaménto dell'unità nazionale. In più, il governo Minghetti aveva fatto sparare sulla folla scesa in piazza a protestare, provocando un vero e proprio eccidio. Ai suoi esordi, là Gazzetta Piemontese espresse, perciò, i crucci e le amarezze di una città che — spodestata dal rango di capitale e delusa nelle sue ambizioni di fare un «grande Piemonte» di tutta la penisola unificata, dopo essere stata la culla del Risorgimento — stava vivendo una profonda crisi d'identità, ripiegata su se stessa e afflitta dall'angoscia di esser votata a una decadenza irreversibile. Tuttavia il giornale torinese non si limitò a fate da cassa di risonanza del «piemontesismo», di nostalgie c recriminazioni municipalistiche. Sostenne pure alcune istanze progressiste:-" il decentramento amministrativo,- la riduzione del carico-^frscalè e delle spese militari, la riforma del codice penale, l'esigenza di non deprimere l'iniziativa privata con indirizzi statalisti. * * Avvicinatasi perciò alla Sinistra costituzionale, la Gazzetta Piemontese appoggiò, dopo la caduta della Destra nel marzo 1876, le principali riforme dei successivi governi Depretis e Cairoli: dalla legge sull'istruzione elementare obbligatoria all'abolizione dell'imposta sul macinato, ai primi provvedimenti di legislazione sociale. Fu in particolare Luigi Roux, successo nel gennaio 1880 alla direzione del giornale e animatore dell'«Associazione liberal-progressista», a coniugare l'eredità del liberalismo risorgimentale subalpino con un programma relativamente avanzato per quei tempi, sia in materia di diritti politici (auspicando un ampliamento del suffragio elettorale più esteso di quanto non fu poi concesso), sia in ordine alla questione sociale (abbandonando il paternalismo originario per il principio della libertà di organizzazione sindacale). . Roux, che aveva trascorso la giovinezza come semplice compositore nella tipografia del padre, aveva peraltro in comune con Bersezio la stessa ostilità verso l'affarismo, la mediocrità faccendiera, i compromessi politici. Avversò pertanto il trasformismo e denunciò la «finanza allegra» in nome di una prospettiva riformatrice, al riparo dagli sprechi e dal velleitarismo, che fini per accostare il giornale torinese alle posizioni di Zanardclli e più tardi a quelle di Giolitti. L'appoggio della Gazzetta si rivelò essenziale, fin dalle elezioni del 1886 (che premiarono il gruppo deU'«opposizione subalpina»), per le fortune del deputato di Dronero nella sua ascesa a ministro del Tesoro e poi, nel maggio 1892, a presidente del ConsM glio. E fu ancora Roux ad adoprarsi, quando Giolitti venne travolto dallo scandalo della Banca Romana, per farlo risorgere dalle ceneri. In Giolitti, Roux vide l'uomo che avrebbe potuto assicurare un indirizzo autenticamente liberale, così che non esitò a giocarsi il suo posto di deputato e a mettere a repentaglio la stessa sorte del gior- naie pur di far cadere di sella Crispi, la cui politica repressiva, sommandosi all'avventurismo coloniale, stava trascinando il Paese verso una svolta autoritaria. Con lo stesso vigore La Stampa (che tale era divenuta nel frattempo la sua testata) si pronuncio, non appena si rese conto della gravità del pericolo, contro le leggi liberticide e i «governi deua sciabola», all'indomani delle cannonate di Bava Beccaris a Milano. Respinto il tentativo reazionario, il giornale torinese capì che non ci si poteva fermare a metà strada, che occorreva includere gradualmente le grandi forze popolari extra-risorgimentali, che nella crisi di fine secolo s'erano battute in prima fila in difesa dei diritti statutari, nell'alveo della legalità al fine di allargare le basi dello Stato liberale. E questo fu il compito che si assunse Alfredo Frassati, che fin dal suo debutto nell'ottobre 1900 portò nella direzione del quotidiano il segno di una forte personalità e di una moderna cultura politica, sullo sfondo di una città non più attenta soltanto al corso delle rendite pubbliche e alle carriere burocratiche e militari, ma ormai avviata verso il «decollo» industriale grazie all'impetuoso sviluppo acl settore meccanico e automobilistico.^ ,»r. ..; j,'apcTtj«a;,l<felu giornale ad alcuni valenti collaboratori da tutta Italia, la formazione di un corpo redazionale di prim'ordine e l'ammodernamento degli impianti (che consentirono di portare la tiratura da 50 mila a quasi 300 mila copie alla vigilia della guerra) accompagnarono l'evoluzione politica de La Stampa verso un programma di democrazia liberale in alternativa alla linea conservatrice del Corriere della Sera di Luigi Alberarli. Caposaldi di questo program¬ mle coganece»litsincidepuisstdiav(nsrmstgspdcostanaPddlidfrtrlialchscl'mmdtainucomnaddaded ma erano il rinnovamento delle istituzioni pubbliche per colmare il fossato fra «Paese legai*» e «Paese reale», la fiducia nel\'«Italia che lavora e produce», il principio della neutralità dello Stato nelle vertenze sindacali, il dialogo con i socialisti riformisti e la difesa dei valori laici risorgimentali pur nel riconoscimento delle istanze cattolico-popolari. La Stampa finì così per sostenere il nuovo corso politico di Giolitti, dopo che Frassati, avverso ai connubi e fautore (non senza un certo schemati-. srno dottrinario) di un sistema bipartitico nettamente distinto fra conservatori e progressiti, s'era convinto che la spregiudicatezza manovriera dello statista di Dronero (nei confronti del quale non era stato talora avaro di critiche anche severe) non avrebbe né affossato le prerogative del Parlamento, ne pregiudicato il disegno più generale di una democratizzazione dello Stato liberale, come risultò poi evidente dall'attuazione del suffragio universale maschile. * * Se nel 1911 La Stampa patrocinò la spedizione a Tripoli, non accodandosi peraltro alle declamazioni nazionalistiche, tre anni dopo essa si schierò decisamente contro l'intervento nella;prima:gueria mondiale e condivise jjmo'aj, maggio 1915 Te ^"si.névtràf iste di Giolitti. Per Frassati si trattava non soltanto di mettere in conto le ingenti perdite umane ed economiche di un conflitto lungo e distruttivo ma anche i suoi contraccolpi negativi sulla politica interna, a cominciare dal tramonto della tacita intesa fra liberali democratici e socialisti che aveva reso possibile nel primo decennio del secolo la pacifica evoluzione del Paese. Di fatto il solco scavato dalla contrapposizione tra in¬ terventisti e neutralisti si trasformò nel dopoguerra nell'urto frontale tra nazionalfascismo e massimalismo rivoluzionario. Nonostante la radicalizzazione della lotta politica, La Stampa continuò tuttavia a battersi per la ripresa di una valida iniziativa riformatricc. Luigi Salvatorelli, che assunse la condirezione del giornale dopo la nomina di Frassati ad ambasciatore a Berlino, tu il più autorevole interprete di questa linea. Ancota una volta La Stampa sperò nelle «virtù taumaturgiche» di Giolitti, a cui andava pure l'appoggio di Giovanni Agnelli che, entrato nella comproprietà del giornale, aveva salutato nel giugno 1920 con grande fiducia il ritorno al potere dello statista piemontese come l'unico leader liberale in grado di trarre il Paese dal baratro della bancarotta finanziaria e da una conflittualità sociale endemica (giunta proprio nel settembre di quell'anno all'occupazione operaia delle fabbriche). Perciò, dopo l'avvento nell'ottobre 1922 di Mussolini al potere, che Frassati aveva cercato di scongiurare in ogni modo (confidando, prima, in soluzioni tali da render possibile il disarmo e la «costituzionalizzazione» del movimento fascistat,pc)ir ^faccndo.leva sulle ultime_. possibilitàVeli sbarrargli la strada), il giornale si trovò sempre più esposto alle ritorsioni dello squadrismo. Finché nel novembre 1925 Frassati fu costretto a lasciarne la direzione non senza aver prima posto il suggello, con una dura.requisitoria contro il governo fascista per l'assassinio di Giacomo Matteotti, a quel magistero politico e civile che La Stampa aveva svolto fino allora con coerenza all'insegna di un ideale liberale democratico. Valerio Castronovo Vittorio Bersezio (che con Casimiro Favole fondò il giornale), Luigi Roux e Alfredo Frassati