Affascinati dal «Made altrove»

Affascinati dal «Mode altrove» USA: S'IMPORTA DI TUTTO, TRA PROBLEMI ECONOMICI E DIBATTITI Affascinati dal «Mode altrove» Preoccupata per il deficit commerciale di 200 miliardi di dollari, l'America pensa a misure protezionistiche - Attori e politici invitano a «comprare americano» - Ma l'appello è inascoltato, o suscita polemiche - Una famiglia benestante del Middle West compra pasta, scarpe e maglioni italiani; moto, tv e stereo giapponesi; mobili scandinavi; telefoni di Taiwan NEW YORK — E' stata presa come campione una famiglia benestante del Middle West con un reddito annuo di 50 mila dollari: padre, madre e due figli fra i dieci e i quindici anni. Spendono ogni settimana 125 dollari per mangiare, 500 dollari per vestire. In più ci sono le spese annuali per gli oggetti di casa e le due automobili. Se questa famiglia è tipica, i quasi 200 miliardi di dollari del deficit commerciale americano dovrebbero, in proporzione, verificarsi anche qui. E infatti, per prima cosa si vede nel garage una Hyundai coreana accanto alla Buick di famiglia. La motocicletta del figlio teenager è una Honda (giapponese) e le due biciclette sono italiane. Il cestino della pallacanestro, sopra il garage, è «made in Taiwan», e fra gli strumenti di lavoro, accanto al celebre Black and Decker americano, quasi tutti gli altri utensili sono «importeci., fabbricati dalla Hilti, del Liechtenstein, e dalla Mikita di Tokyo. Ma il cerchio magico del prodotto importato non si ferma fuori di casa. Tutti i televisori (soggiorno, cucina, camere) sono Sony o Panasonic, il videoregistratore è Toshiba, l'impianto stereo è Sanyo. Nel tinello i mobili sono scandinavi. In cucina la frutta viene dal Messico, il frullatore è francese, la mostarda è inglese, la birra tedesca, la pasta italiana. I maglioni dei ragazzi sono italiani (quasi sempre Benetton), le scarpe buone sono italiane; quelle sportive, come le tute,' gli attrezzi, sono di Taiwan. Il piumino sui letti è tedesco, il lavabiancheria montato a Singapore. Una famiglia di questo tipo sceglie .un.'&iitorante francese ór itatìanó; sé decide *^?J^m^Club Mediterranée nei Carato! piuttosto che in Florida, e dà una mano all'importazione persino quando pensa di acquistare oggetti «made In Usar-. C'è acciaio e alluminio giapponese ed europeo in gran parte dei manufatti americani (soprattutto le automobili), due terzi dei prodotti elettronici sono di disegno americano ma montati a Hong Kong, Singapore o Taiwan, lane e tessuti sono italiani anche quando non sono identificati. Lo studio è stato ripetuto considerando i consumi di famiglie molto più povere e di famiglie molto più ricche e la sorpresa è che le variazioni, rispetto all'importazione, sono modeste. Fra coloro che devono stare attenti alle spese e che sono preoccupati per la durata di quello che comprano, quasi tutti gli indumenti, e la biancheria intima, persino le lenzuola, che non si devono stirare, vengono dalla Corea. E sono 1%m&an?o italiani gli ingredienti dei cibi poco costosi e più popolari, come pizza e spaghetti. Nette fasce-dei consumo di vini, le auto- status — conte Ferrari e Mercedes — i materiali da costruzione, dai legnami francesi ai marmi italiani che sono preferiti dagli architetti, quasi tutti i tessuti stampati. Sono europei quasi tutti i g&dgets e gli oggettini del confort quotidiano, se appena entra la componente del buon disegno industriale (e allora sono italiani o tedeschi) e naturalmente la moda firmata, dove nonostante i Calvin Klein e i Ralph Lauren l'importazione, specialmente italiana, continua il suo dominio senza tener conto per ora dell'indebolimento del dollaro. In cucina C'è una intensa campagna propagandistica: attori, politici, celebrità della vita sociale e sportiva che invitano in tutte le occasioni a «comprare americano». Ma gli inviti non tengono conto delle complicate strutture della produzione industriale di oggi in America. Il 75 per cento delle cucine a microonde, per esempio, sono costruite o almeno montate fuoÌf-ilagiÌ><Stdtl«tUniti, benché il nome . e la marcararamente lo rivelino. E lo stesso accade non solo per gli orologi e gli strumenti di precisione, per i personal computer e per i giocattoli, ma anche per gli indumenti «made In America» che il più delle volte sono lavorati off shore, in angoli poco costosi del mondo. Fra tutti gli oggetti di casa che usano gli americani, facendo la media fra città sensibilissime alla moda, come New York e Los Angeles, e la più austera ^America interna' il 30 per cento (l'80 per cento dei più desiderabili e costosi) è importato, con un'impennata del 40 per cento in media nel 1985. Italia, Spagna, Brasile e Corea continuano a dominare il mercato delle scarpe, dalle Gucci firmate alle scarpette da corsa. Le parti di ricambio di oggetti di largo consumo, per esempio le biciclette, non sono neppure fabbricate in America, dunque anche l'aumento di prodotti ecologici si trasforma in aumento di importazioni. Ma non basta neppure l'intenzione patriottica del «buying american». Per esemplo nel boom domestico dei telefoni senza filo (t cor modi -cordless telephonesche si possono usare muovendosi liberamente in tutta la casa) gli americani che hanno sempre escluso le marche giapponesi in favore dell'americanissimo radio snack hanno scoperto la piccola dicitura «made in Taiwan» sotto la targhetta di garanzia dei loro telefoni. Ma la rivelazione più sensazionale sul filo intricato che lega ciò che è da ciò che non è americano, si è avuta con uno studio sugli spot pubblicitari, condotto da una rivista di cinema, American film: un celebre minifilm che raccomandava di comprare americano, usando attori come Bob Hope e Brooke Shields, era stato diretto da un regista inglese, filmato da una troupe francese e prodotto da un'azienda pubblicitaria tedesca. Il problema dunque appare compresso,, «appartiene alle situazioni che ci vengono presentate come se fossero semplici e invece sono psicologicamente ambigue, organizzativamente complicate e logicamente contraddittorie», ha detto Robert Straus, che è stato «Us trade representative», equivalente americano del ministro del Commercio con l'estero, e presidente del partito democratico. Una prima questione infatti è proprio quella psicologica. Alleanza, cooperazione, rapporti di amicizia e d'affinità culturale e politica legano l'America e gli americani alla maggior parte dei Paesi dai quali importano. «Se ammiriamo l'arte o 1 costumi d'altri popoli, se siamo abituati a desiderare o a visitare luoghi che consideriamo cari e gradevoli, come si fa a chiedere di rifiutarne i prodotti?», osserva l'atroocato Cyrus Vance, già ministro degli Esteri di Carter. Il turismo C'è voluta una dura e appassionata campagna di persuasione politica, nel 1986, per scoraggiare gli americani dal viaggiare in Italia, Francia e Germania, sinora tappe predilette del turismo americano. Ma la percezione di quel momento d'emergenza è finita e quei viaggi riprenderanno, forse un po' limitati dalia perdita di valore del dollaro. E' inevitabile che ci sia un legame fra il turismo e gli scambi, e che sia privilegio degli abitanti del mondo libero di andare a cercare il prodotto preferito. Come si cercano i luoghi e gli am¬ bienti, l ristoranti e le spiagge. «Comprare è come viaggiare», dice {'editore Malcolm Forbes, in un'inchiesta sulla rivista che porta il suo nome. «Cerchiamo tutti la cosa diversa, con un Impronta estranea e lontana. Qualche volta appare una garanzia di qualità, altre volte di stile, di novità, d'avventura. Sempre il prodotto 'made altrove" porta con sé la promessa che i confini della vita, nonostante la routine quotidiana, non sono poi tanto stretti». Come il turismo, il comprare cose fatte e pensate lontano è una spirale che spinge a ripetere il gesto con altre cose, altre marche, altri Paesi. Il meccanismo del consumo, che invita ad avere bisogno d'una cosa nuova ogni volta che è disponibile, e quello dei viaggi, che offre il tempo libero come riscatto della vita ritualizzata, si sommano e spiegano il desiderio dei mobili svedesi, delle biciclette italiane e delle birre tedesche nella casetta del Minnesota. «Del resto avviene la stessa cosa nei film e nei programmi televisivi. E avverrebbe con i libri, se i libri avessero un mercato e un pubblico più ampio», dice Forbes. Tutto ciò, per moltissimi, conta più di pratiche considerazioni sulla convenienza, il prezzo, la concorrenza e la qualità del prodotto. Ciascun Paese sembra avere perso colpi in un settore o nell'altro, e tende quindi a integrarsi con i Paesi che invece in quei settori si sono perfezionati. Nel mondo libero nessuna autorità ha mai presieduto a un'armonizzazione di mercati e prodotti. Come può nascere allora il progetto di persuadere i cittadini di un grande Paese democratico a t comprare naittónaie* **m7 ^ *t ««» cultura che osserva scrupolosamente tutti i dettati, anche i più piccoli e ornamentali, della vita secondo la libertà? «Sanno tutti che il prote¬ zionismo ha una radice nazionalista (comprare americano è bello ed è doveroso) e una radice sindacale e politica (comprare americano è necessario per proteggere mercati e posti di lavoro). Le due radici sono forti, però non trovano 11 sostegno di culture più ampie. La prima richiederebbe un senso del nazionalismo esteso a ogni altro fenomeno, e non solo al comprare, isolamento, autocompiacimento, senso di superiorità e un più o meno velato disprezzo per gli altri. La seconda esige una limitazione della libertà che si esprime di solito con il controllo della produzione, del prezzi, del mercati», dice Felix Rohatyin, banchiere non privo di esperienze culturali e politiche. Eppure la contraddizione è destinata a durare, fra sconfitte continue e nuove esortazioni, «perché», ha notato John Reed, capo della potentissima Citibank, «è più facile ripetere luoghi comuni che ridiscuterli». Furio Colombo New York. Bob Hope e Brooke Shields durante uno spettacolo. Insieme, i due attori sono protagonisti di un mini-film che raccomanda di «comprare americano». Per ironia della sorte la pellicola è stata girata da un regista inglese, con una troupe francese, per un'agenzia pubblicitaria tedesca (Telcfoto Ap)