Oliveti al Nord un'idea possibile di Sandro Doglio

Oliveti al Nord un'idea possibile casa in campagna Oliveti al Nord un'idea possibile IL richiamo era allettante: così siamo andati a vedere la raccolta delle olive a Cocconato, piccolo centro del Monferrato — in altri tempi celebre per mangiate popolari di agnolotti e bolliti — arrampicato in cima a un colle di quasi 500 metri, da cui si dominano le colline. Le olive nel Monferrato? Ebbene, sì: nel giardino di villa Brina — la bella vecchia casa dei Bava, produttori di vino e cultori di jazz — c'è qualche gigantesco ulivo, che dà proprio olive, olive buone da mettere in salamoia, forse anche da far olio. Se ci sono, non è soltanto per merito del rinomato micro-clima di Cocconato e dintorni: un tempo infatti gli ulivi crescevano e fruttificavano anche nella pianura Padana, sui colli monferrini e nelle Langhe. Ne sono prova i toponimi rimasti — San Marzano Oliveto presso Canelli (Asti), Olivola nell'Alessandrino, Oliva Gessi nel Pavese, per esempio — e ne sono testimonianza i cronisti delle scorrerie del Barbarossa nelChierese(1155),gli Ordinati comunali di Torino del 1377 (che già parlavano di provvidenze a favore di chi impiantava olivi e mandorli sulla collina oltre Po), lo stesso storico Goffredo Casalis, e tanti altri ancora. Se oggi gli ulivi in Piemonte sono ridotti a pochi esemplari, più per curiosità che per produzione, non lo si deve a un cambiamento di clima — sosteneva sessant'anni or sono il prof. Dino Gribaudi — ma a motivi meramente economici. Le stesse cause, insomma, che hanno portato all'abbandono di altre colture, un tempo tipiche in queste colline e pianure, e che oggi quasi ci sembrano «esotiche»: la canapa, il lino, lo zafferano, i ceci, le lenticchie, l'allevamento dei bachi da seta. Chi ha casa in campagna ci pensi: forse vai la pena — per divertimento o per curiosità — tentare di fare un passo indietro. Non è difficile coltivare gli ulivi anche in climi apparentemente ostili: i piantini sì trovano in Riviera o in Toscana (e costano piuttosto cari); è bene andarli a cercare in primavera, che siano già ben sviluppati. Devono essere piantati possibilmente al riparo dai venti di Nord e di Est, e al sole. In inverno sarà sufficiente proteggerli alla base con letame o paglia o foglie sec-. che. Due grandi teli di plastica per terra, un lungo bastone per «battere» i rami, una scala per i più audaci che vogliono arrampicarsi e andarle a raccogliere con le mani; ed ecco che le olive dei Bava — pochine in verità, e certamente, per via del freddo intenso delle scorse settima¬ ne, non troppo «grasse» — sono nel paniere. Una preziosità golosa, comunque, da fare invidia ai gentiluomini di campagna che leggono. Chi sta già tentando di riprendere la coltura delle olive In queste zone, è uno dei più simpatici personaggi delle Langhe, Cesare Giaccone — che vai la pena di conoscere soprattutto per i capolavori di alta cucina che sa preparare nel suo piccolo ristorante di Albaretto Torre; tra Alba e Bossolasco. v Cesare ha dunque deciso — avendo già le «sue» oche, i «suoi» polli, i «suoi» conigli, i «suoi» capretti, eccetera — di aver anche la «sua» farina e il «suo» olio d'oliva. Per la farina si è fatto montare in una vecchia casetta una antica macina con le pietre rotonde, recuperata e riattata da un mulino andato in ma¬ lora. Per l'olio ha scelto a pochi passi dal ristorante un pezzetto di terra ben esposto e ci ha piantato un certo numero di olivi di cui segue la crescita e la sopravvivenza giorno per giorno, con l'occhio tenero di un padre. Anche perché Albaretto Torre è arroccato sulla Langa, a 672 metri d'altezza; le olive che Cesare raccoglierà potranno probabilmente figurare nel Guinness dei primati, se si tien conto, con l'altezza, della latitudine. Ad ammirare gli ulivi di Cesare e a gustare le sue prelibatezze gastronomiche siamo saliti ad Albaretto con un altro straordinario personaggio, l'ing. Cesare Debenedetti. Basti dire che, non più giovanissimo, si era „ messo in testa tempo fa di visitare — a cavallo, partendo dalla sua casa di Cherasco — i più grandi ristoranti d'Italia, Francia e Svizzera. Ci ha impiegato otto anni, ma ha raggiunto il suo obiettivo: è sceso di sella, dopo aver scavalcato le Alpi, perfino per entrare da Paul Bocuse vicino a Lione; ha legato le briglie del suo destriero alla porta di tutte le stelle della Savoia, del Nizzardo, di Ginevra e Losanna, della Liguria, naturalmente del Piemonte, ed è addirittura riuscito ad arrivare in sella fin da Gualtiero Marchesi, nel cuore di Milano, fra automobili, motociclette e tram. In tutto, come si era proposto, ha visitato con il suo cavallo cinquanta grandi ristoranti (dice che sta facendo scrivere la sua incredibile avventura al suo stesso cavallo). Debenedetti è logicamente anche un buono studioso di sole, luna e stelle, e mentre il tramonto tinge di rosso le Alpi al di là del Monviso, fino al mare, si parla di misura del tempo, di meridiane, di solstizi e di equinozi, di proverbi. E risalta fuori il famoso Santa Lucia: il giorno più corto che ci sia- di cui abbiamo già anche scritto. E' un proverbio in sé sbagliato: tutti sanno che il giorno più corto dell'anno è invece il 21 dicembre; ma in fondo può anche essere un proverbio esatto — sostiene Debenedetti, documenti alla mano — perché proprio 11 13 dicembre, appunto ricorrenza di Santa Lucia, l'ora del tramonto (che da giugno anticipava regolarmente), comincia invece a ritardare. L'ora del sorgere del sole, continuando dal canto suo a ritardare, fa sì che la durata effettiva delle ore di sole a Santa Lucia sia ancora in calo fino al giorno del solstizio d'inverno; ma — sostiene l'ing. Debenedetti — «i nostri vecchi non guardavano tanto l'alba, quanto il tramonto: vedendo che il sole a partire da Santa Lucia tardava a scomparire all'orizzonte, non fosse che di un pugno di secondi, hanno pensato che quello fosse il giorno più corto». Così, grazie al cielo, alle macine e agli ulivi di Cesare, grazie allo splendido tramonto visto da Albaretto Torre, grazie soprattutto a un gentiluomo cavaliere che sa di stelle e gastronomia, abbiamo salvato un proverbio che credevamo inesorabilmente condannato come un falso, come un errore marchiano fatto dai nostri avi. Ne siamo molto soddi- sfatti Sandro Doglio