Musica di Dio

Musica di Dio L'ECCLESIASTE RITRADOTTO Musica di Dio «Se il libro che stiamo leggendo non ci sveglia come un pugno che ci martelli sul cranio, perché dunque lo leggiamo? Buon Dio, saremmo felici anche se non avessimo dei libri e quei libri che ci rendono felici potremmo, a rigore, scriverli da noi. Ma ciò di cui abbiamo bisogno sono quei libri che ci piombano addosso come la sfortuna, come la morte di qualcuno che amiamo più di noi stessi, come un suicidio. Un libro dev'essere una picozza per rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi». Sempre duro il buon Kafka, e questo suo amarissimo asserto — non scritto certo per solo gusto di paradosso — lo dimostra. Duro, ma salutare. Soprattutto per chi veda, compri e legga — e scriva — un libro che coincida in qualche modo con la vendita o l'acquisto rituale delle feste natalizie. Ritrovo questa denunzia e questo rimpianto di Kafka puntualmente premesso a un libro, e com'era possibile diversamente? Ma il libro è singolare, unico, antico e immortale. Si tratta di quel libro dell'Antico Testamento che andava sotto il nome di Ecclesiaste, di incerto autore, e forse a più mani, del HI Secolo a.C: il Qphelel. Libro durissimo, poco pacificante, per niente, ma solo a prima vista, natalizio. E tuttavia credo sia salutare metterlo a confronto del nonsenso e del gorgo delle strennelibrarie che ci arrivano tra capo e collo. E' il famoso libro del «Vanita delle vanità e tutto è vanità", il libro del pessimismo biblico ebraico e universale più esplicito e duro, nella sua affermazione più drastica e in apparenza irreversibile. E' vicino alle, famose Lamentazioni del profeta Geremia. Se Geremia è drammatico e tragico, l'autore del Qohelet è soprattutto, a una prima lettura, annoiato e disincantato, tanto che è stato definito da più di un esegeta «sacerdote del nulla». In una nuova versione, esso appare ora nelle Edizioni Pao- line, commentato e annotato da quell'esegeta e biblista principe che è Gianfranco Ravasi, il quale lo definisce «il libro più originale e "scandaloso" dell'Antico Testamento». Un libro che un altro esegeta definisce «canto del silenzio e del non-senso, della vecchiaia e dell'oscurità, qua e là chiazzato di strani bagliori di un'allegria rassegnata, e da cui non si esce indenni ma adulti o pronti a diventarlo». E tuttavia il Qohelet non è affatto un «sacerdote del nulla», come lo vorrebbe anche la più diffusa opinione fra esegesi aggiornati e recenti. In quel libro si ode il grido di fede di Giobbe, che nasce da un corpo devastato e purulento, dal rimpianto di una felicità distrutta, dal vuoto tangibile di tutte le speranze, un vuoto totale e assoluto. Il pessimismo del Qohelet — il vuoto, l'oscurità — non sono però, secondo Ravasi, «opachi». Il biblista scrive che quel vuoto e quell'oscurità «sono una realtà autobiografica per molti, per tutti, in alcuni momenti» e tuttavia sono anche «un'inconsapevole ma reale parola di Dio, essendo questo campo del vuoto e del silenzio ispirato da un Dio che non teme di passare attraverso la galleria oscura della crisi, della sapienza e della vita». Quanto non hanno già parlato, in questi decenni, del «silenzio» di Dio, della sua «assenza», della sua «morte»? Eppure, questo trattato esistenziale d'una saggezza sommersa e lontana è tuttavia d'una provocante attualità, ha già detto tutto nel più duro e forte dei modi anche su questa interpretazione del Divino. Anche qui, come nel martire luterano Dietrich BonhofTcr, incenerito dai nazisti a Flòssemburg, viene rifiutato il «Dio tappabuchi», cioè il Dio che non può essere dichiarato «morto» perché in realtà non è mai «nato», in quanto è finito per essere solo un «surrogato» del Dio d'Abramo, d'Isacco e di Giacobbe, del Dio dei vivi e dei morti. Secondo un altro esegeta il Dio del Qohelet «esprime la resistenza d'Israele», come precisa Ravasi «a qualunque tentativo di trovare rifugio in un mondo parallelo, il suo messaggio agisce come una medicina, liberando il saggio da una certa pompa e dalla responsabilità di non essere un agente della storia universale». Difficile libro, ma anche simile a una musica, è certo testo di altissima, tragica poesia. Esige un percorso che occorre mettere in conto, «irto e scosceso», come avverte Ravasi. * * Qohelet non è il libro dei destini, ma un libro del vero destino d'ogni Qohelet che si interroga e sfida sul significato e l'esito del vivere e del morire in tutta la storia umana. Prende senso, volta a volta, di luce o di tenebra,, a seconda di come i «mille Qohelet», come li chiama Ravasi, cioè tutti gli uomini capaci di interrogarsi e superarsi, affrontano il buio e il silenzio come una tomba da cui uscire o come un solco in cui morire per rinascere (come il Giobbe biblico dimostra nel suo libro, altrettanto drammatico e stimolante di questo. Dietrich Bonhoffer cosi pregava nel lager di Flòssemburg, insieme con altri destinati a finire in cenere: «E' buio dentro di me, / ma spesso di te c'è la luce; / sono solo, ma tu non mi abbandoni, / sono impaurito, ma presso di te c'è l'aiuto. / Sono inquieto, ma presso di te c'è la pazienza; / io non comprendo le tue vie, / ma la mia via tu la conosci». Libro di enigmi, più che di spiegazioni, ma difficile da abbandonare una volta che vi si entra. Cosi ne scriveva un altro grande Qohelet contemporaneo, quel cristiano diffìcile che fu Georges Bernanos, escludendone in partenza dalla lettura gli «uomini volgari mentalmente e spiritualmente, i superficiali, coloro ai quali occorre un certo numero di luoghi comuni, da ripetersi scambievolmente come pappagalli, coi movimenti affettati, gli impettimenti e le strizzatine •d'occhio di quell'uccello. Ma non si nutrono i pappagalli col vino aromatico dell'Ecclesiaste o del Libro di Giobbe». Nazareno Fabbretti

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