Sveglia Usa: la vita è complicata di Furio Colombo

Sveglia, Usa: la vita è complicata FINE D'ANNO IN AMERICA, MA FORSE ANCHE FINE DI UN'EPOCA Sveglia, Usa: la vita è complicata Le prime nomine di Bush rivelano la nuova consapevolezza che ogni problema ha molte facce - Ministro del Lavoro sarà Elisabeth Dole: di destra, ma sensibile ai disagi dei disoccupati - Alla Sanità un medico nero, cauto e equilibrato sul problema aborto - Il politologo Benjamin deMott: «Unilaterale vuol dire cieco» NEW YORK — E' o non è la i fine di un'epoca? Si preferisce immaginare che tutto continuerà come adesso, per due buone ragioni: una è che per dichiarare la fine di un'epoca bisogna dire che epoca è stata, bisogna offrire una definizione e un giudizio. Che è difficile di fronte a un nodo di cose che sono molto migliori e di altre che sono molto peggiori che in passato, mentre si intravedono, insieme, speranze che mai prima erano state tanto realistiche, e paure mai così profonde e incombenti. L'altra è che si è creata — nell'epoca in cui tutto appare più complicato, dal curare una malattia al far funzionare una scuola — la «cultura della semplificazione». E' troppo difficile mostrare, per ogni questione, tutti i pezzi del gioco: ci si contenta di estrarre, di volta in volta, i più vistosi, e di spiegarli con connessioni semplici. Si parla di «guerra alla drogo» senza cercare di scoprire che cosa porta a una così furiosa domanda di droga (le cifre del consumo continuano a salire). Si parla di «riformare Wall Street», travolta da un mare di inchieste, arresti, condanne, definendo semplicemente «eccesso» una catena allarmante di eventi, ma non si tenta di trovare il punto di congiunzione fra ciò che è tecnico e ciò che è morale, il luogo in cui si incontrano responsabilità personale e giudizio professionale. Si chiudono e si aprono centrali atomiche (le centrali si stanno rivelando pericolose: le centrali offrono l'energia necessaria e non si può farne a meno), ma senza valutare il fenomeno in un quadro in cui appaiono insieme sicurezza, prudenza e la garanzia di non cadere nella penuria. Circolano i venti impetuosi delle grandi persuasioni, più di princìpio che di ragione, più di fede che di prova. Si parla di difendere le risorse del mondo controllando le nascite. Ma si dice che un mondo invecchiato e senza nuovi giovani porterà decadenza e non sarà economicamente in grado di provvedere a se stesso. L'America dunque ripensa se stessa, rivisita i suoi percorsi e, anche senza dirlo, ha probabilmente deciso che è finita un'epoca. Non c'è niente di polemico in questa decisione. Ma mi sembra diffusa la sensazione di avere attraversato un ponte e di essere arrivati a una terraferma nella quale tutti devono fermarsi, guardarsi intorno, decidere che cosa vogliono fare, dove intendono avviarsi e per quali ragioni. Alcuni eventi mi incoraggiano in questa impressione. Uno viene dalle notizie di prima pagina. E' il modo in cui, mi sembra, la nuova presidenza sta costruendo se stessa e dislocando le pietre del nuovo edifìcio, una manovra insolitamente cauta, se si pensa che tecnicamente non c'è «successione», che tutto avviene all'interno dello stesso edificio, un governo repubblicano che succede a un go verno repubblicano, un vice presidente che diventa presi dente, e resta dunque nel punto da cui ha già governato. Intorno c'è un brulicare di tensioni e risvegli nel mondo della cultura, di quella vicina alle lettere, alla filosofìa, alla scuola. Ma anche di quella vi Cina al lavoro, all'impresa, ai sindacati e all'economia. Non è un occasionale bilancio di fine anno, un aggiustamento di visione e di tiro. Mi sembra un lavorio più profondo, dal quale vengono segnali sia di disagio che di ripensamento. Mostra che il progetto, in questo periodo, è soprattutto «ridefinire» in quale modo si ricomincia. Vediamo il governo. George Bush sembra ispirarsi al con cetto di «governare insieme» Sta facendo scelte che, invece di dividere, accostano, invece di segnare divisioni le atte nuano. In apparenza sembrano soltanto buone manovre politiche. Nominare ministro del Lavoro Elisabeth Dole, moglie dell'ex rivale nelle elezioni «primarie» presidenziali, può apparire un elegante espediente tattico. Individuare nel dottor Sullivan, medico nero, il candidato ideale per il ministero della Sanità, può essere giudicato un modesto tributo offerto all'opinione nera, che non ha mai votato repubblicano. Eppure proprio queste due nomine, in apparenza marginali, con tengono altre ragioni. Per ca pirle può essere utile ripensare a otto anni fa. all'arrivo di Reagan alla Casa Bianca. L'ala repubblicana conservatrice, che si considerava giustamente la vera vincitrice di quelle elezioni, aveva voluto segnare ogni gesto iniziale con un messaggio di rottura, un «basta» col passato, netto e irriducibile. Molti ricorderanno che il primo gesto del nuovo presidente era stato il licenziamento in tronco di diecimila controllori di volo, che pure appartenevano a un sindacato amico dei repubblicani. Indicare come modello la fine delle unlons è sembrato più importante che pagare un debito politico. Procedere a nomine di rottura (è allora che si è messo in vista come «amico» della Casa Bianca il reverendo Jerry Falwell, esponente del Cristianesimo fondamentalista, intransigente, chiuso a ogni posizione di compromesso) è sembrata la strada giusta e la sola. Oggi noto che la signora Dole, repubblicana moderata, con buone antenne politiche, dice, il giorno della sua nomina: «Sono sempre perseguitata dalla frase che un operaio mi ha detto durante la campagna elettorale di mio marito: tutto quello che mi serve è un lavoro. Non chiedo altro, solo un lavoro». Si potrebbe dire con un po' di superficialità che, nella tradizione americana, questa è una parola d'ordine liberal. Ma se qualcuno la pronuncia in nome di Bush, significa «pace coi sindacati-. Cambiamento Prendiamo l'altra nomina. Il ministro della Sanità, in America, avrà in mano la questione dell'aborto. Irepubblicani conservatori hanno mandato Bush alla Casa Bianca con un netto mandato anti-aborto e il compito di sradicarlo dalle leggi americane. Bush è stato il più possibile alla larga da quell'argomento durante la campagna elettorale. Adesso indica come suo candidato al governo della salute un medico nero di buona reputazione, che ha sempre tenuto una posizione intermedia e cauta sull'argomento, rispettoso dei sentimenti di chi, per persuasione religiosa, nega il diritto di aborto, ma consapevole che il problema esiste ed è vero e reale per molti. Vorrei sperare che solo in apparenza si tratti di buone manovre. A me pare che rivelino un cambiamento culturale di fondo: fine di un periodo, che è stato fortunato, ma forse ha fatto il suo tempo, in cui si credeva e si invitava a credere nella semplificazione come soluzione di un problema. Per restare al primo episodio sim bolico, dell'era di Reagan, nessuno ha voluto calcolare ad alta voce il danno recato al sistema della sicurezza ae¬ rea americana da quei diecimila licenziamenti in tronco di personale specializzato. Ma molti sanno che si è giunti ai limiti estremi del rischio, e che non si può continuare a giocare d'immagine su grandi problemi" che stanno arrivando al punto caldo della loro complicazione. E'per questo che mi sembra da notare l'arrivo, da sinistra, di segnali altrettanto interessanti, un modo nuovo di guardare le cose. La bandiera di questa cultura di revisione è il settimanale politico washingtoniano The New Republic, che si attribuisce il compito, nodo per nodo, di mettere le carte in tavola, e di mostrare tutti i lati e gli aspetti attraverso cui bisogna passare per trovare davvero una soluzione. Finito dunque il periodo in cui da una parte si sventola il «tutto mercato- e dall'altra il «tutto lavoro-, immaginando due colonne in marcia che si disputano il potere. Il punto centrale della tavola è ingom¬ bro di problemi che in parte sono morali, in parte pratici ed economici, in parte riguardano la vita intema del Paese e la sua identità, in parte si legano o si contrappongono al resto del mondo. E ciascuna questione si porta una lunga coda di cose che potrebbero accadere dopo, che bisogna conoscere e calcolare, prima di buttarsi da una parte o dall'altra. Doppia verità Periodici come The Atlantic Monthly e Harper's Magazine presidiano questo nuovo territorio dell'esplorazione del «complicato-. Ma anche le riviste di schieramento, come Commentary (la destra religiosa) e The Nation. o Likkud (la sinistra laica), stanno assumendo una faccia più grave, più cauta, ciascuna cercando altre ragioni oltre quelle che servono per compilare un manifesto. Si deve a un intellettuale dì punta degli Anni 60 la rivisi¬ tazione del «complicato- come territorio di un modo diverso di far politica, che forse sarà tipico della prossima America E' Benjamin deMott che con il saggio Redescovering Complexity (Riscoprendo la complessità, pubblicato su The Atlantic Monthly dsettembre i ha ridefìnito i termini del confronto fra conservatori e Uberals. Ciascuno dei problemi che ci tormentano, afferma deMott — rifacendosi alla lezione di grandi maestri del pensiero liberale americano, come il sociologo Robert Merton, lo storico Richard Hofstadter, il critico Lionel Trilling —. contiene una ••doppia verità". un modo opposto, ma non insensato, dpensarlo e di risolverio. Pensiamo, lui dice, alla droga, ai neri, alla criminalità giovane, ai senza casa, al Medio Oriente. Ognuno di questproblemi può diventare bandiera per soluzioni drastiche e unilaterali. Ma «unilaterale- vuol dire -cicco-, vuol dire problema aggravato e illusione dì avere risolto, troncando e semplificando. La pena di morte non serve per la droga, ma la droga è problema troppo grave per risolverlo con le parole. Non basta costruire più prigioni, e prigioni più dure, per sconfìggere la criminalità, ma non basta neanche dare la colpa alla società ed è impossibile pretendere di essere tolleranti. L'indignazione liberal per la repressione contro la rivolta palestinese è altrettanto inutile come il gesto di incoraggiarla, o di vedere solo pericoli e problemi strategici, per risolvere il dramma dì due popoli con un'unica terra. Il problema dei neri non può essere imputato a loro (la supposizione che chi non lavora non ha voglia di lavorare), ma non può essere messo a carico di tutta la società (•sono stati schiavi, perciò tocca agli ex padroni, adesso, di pagare. ). Benjamin deMott non sta dicendo che la verità sta nel mezzo. Sta dicendo che il gesto macho di dare un taglio ai nodi complicati, di spingere ina il problema a spallate, di prendere di petto una cosa scegliendo con passione estremistica la soluzione più vistosa, più popolare o più facile (non importa se "di destra" o "di sinistra"i non è la risposta a niente, e fonte di altra complicazione e di altro dolore. Sta spiegando che legare -l'età della semplificazione" al nome di Reagan e un atteggiamento sbagliato. Reagan non ha fatto che voltare dalla sua parte ciò che era già semplificato sul versante opposto, ha sostituito «la santità del mercato» a quella dei sindacati, la santità delle armi a quella del pacifismo, la santità delle scuole private rispetto a quella di un sistema pubblico giù crollante, n mondo di prima non è stato più saggio e più attento alle mille variabili ria più grave: che cosa provocherà domani il gesto popolare che io compio oggi?). Adesso la necessità di cambiare il modo di pensare, di analizzare, di valutare, di risoli-ere, riguarda tutti. Ce una curiosa affinità fra la revisione critica di un intellettuale leader del pensiero liberal come Benjamin deMott. e l'atteggiamento di un uomo politico eletto per essere il leader della nuova destra, come George Bush. Può essere un caso, può essere un'illusione. Ma potrebbe anche essere l'annuncio di un mondo che comincia da capo, un po' più prudente e più attento. Furio Colombo Russe!. Elisabeth Dole accanto al marito, durante la campagna elettorale nel Kansas. Bob Dole era l'avversario di Bush

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