«Pietre di corte» splendore dei Medici

«Pietre di corte», splendore dei Medici A Firenze la mostra dedicata alle creazioni dell'Opificio voluto dai Granduchi «Pietre di corte», splendore dei Medici Novanta suppellettili a intarsio per tre secoli di produzione - La manifattura di ogni opera poteva protrarsi per decine di anni - Ma oggi ì laboratori sono fermi: bloccati i restauri, chiusa la scuola FIRENZE — Nella Reggia dei Medici e dei Lorena — Palazzo Pitti — si è inaugurata in questi giorni una singolare mostra monografica dedicata agli «Splendori di pietre dure, l'arte di corte nella Firenze dei Granduchi»: tavole, stipi, consoles, vasi, quadri creati principalmente a intarsio per adomare le dimore — e le tombe — dei sovrani e dei potenti nel corso di quattro secoli. Prodotti nella manifattura fiorentina fondata ufficialmente nel 1588 da Ferdinando I dei Medici ( ma già attiva al tempo di Francesco I), questi oggetti rappresentano ciò che doveva dare l'impressione della ricchezza e del prestigio. Nate in casa Medici quando il potere della famiglia si indeboliva e ancor più forte si rivelava il bisogno di richiamarsi alla tradizione di gran¬ de mecenatismo dei padri e di mostrare il proprio rango attraverso la creazione artistica e di alto artiginato. le stupende suppellettili avevano proprio il compito di «stupire» per la raffinatezza del -commesso» (dal latino commitlere, mettere insieme), per la preziosità del materiale, per la perizia del lavoro che poteva protrarsi per decine di anni. Più di novanta pezzi sono esposti, insieme per la prima volta, nella Sala Bianca di Palazzo Pitti, provenienti dall'Opificio delle Pietre Dure, da altri musei fiorentini, e anche da collezioni straniere, quando sono collegabili con la manifattura originale: perché doni di sovrani di Toscana a regnanti stranieri, oppure perché commissionati a Firenze o elaborati a Praga, a Madrid o a Parigi da maestri provenienti dalla manifattura fiorentina, che ebbe i suoi esordi nei laboratori del Casino mediceo per trasferisi poi al primo piano degli Uffizi, dove rimase fino al 1796. Tre secoli di produzione e un secolo di restauro: il curriculum dell'Opificio attraversa molti stili, dalla freddezza luminosa del tardo Manierismo fino al Liberty, rappresentato da un grande vaso adomo di pietre che simulano fiori, foglie, uccelli e serpenti in rilievo. In mezzo troviamo tutte le variazioni del gusto europeo, dal barocco, al rococò, al neoclassico, negli stipi di ebano impreziositi dai riquadri intarsiati, appartenuti a Vittoria Della Rovere o agli Asburgo, nei piani adorni di conchiglie, perle e coralli, che rivelano l'interesse naturalistico dei committenti, nello tavole — appena arrivate da Vienna insieme alle copie a olio di Giuseppe Zocchi servite da modello — che rappresentano allegorie del fuoco, della terra, dell'acqua e dell'aria. Uno sfolgorio di luce e di colore, una vivezza che crea l'illusione di poter far proprie le figure dell'intarsio. Ma anche gli splendori — come ha detto il sovrintendente all'Opificio Giorgio Bonsani 1 — hanno le loro miserie. Nel corso dell'ultimo secolo l'Opificio è stato essenzialmente sede e scuola di restauro, e adesso sta perdendo anche questa funzione. La scuola è chiusa da un anno e mezzo perché non fa parte di un quadro istituzionale e i gabinetti di restauro languono. Il reparto specializzato nel ripristino dei mobili e già chiuso perché è andato in pensione l'ultimo artigiano, mentre i restauratori di pietre dure sono rimasti soltanto due. Le cose vanno meglio solo nel reparto dipinti, dove sono attive una quarantina di persone. Questo avviene perché le assunzioni devono passare attraverso complicali concorsi a carattere nazionale e sottostare a un bilancio preventivo. La magnificenza di questa mostra — dovuta in gran parte alla sponsorizzazione della Cassa di Risparmio di Firenze — non inganni: al di sotto c'è una crisi profonda. Ancora una volta appare con chiarezza quale sia il dislivello fra ciò che è di pertinenza statale e ciò che nasce dalla partecipazione privata. I funzionari temono la strumentalizzazione dei Beni Culturali, che dovrebbero invece essere considerati come un valore in se. La mostra resterà aperta fino al 30 aprile del 1989. Lcla Gatteschi

Persone citate: Asburgo, Francesco I, Giorgio Bonsani, Giuseppe Zocchi, Vittoria Della Rovere