Un Esercito che sfugge alla Casa Rosada di Mimmo Candito

Un Esercito che sfugge alla Casa Rosada Un Esercito che sfugge alla Casa Rosada Il colonnello Mohammed Ali Seineldin è finito in galera, ma non è detto che sia stato anche battuto. Formalmente, la legittimità costituzionale è riaffermata: il militare ribelle ha dovuto arrendersi, il presidente Anfonsin resta alla Casa Rosada, le forze armate restaurano il principio della disciplina. Però sopravvivono i dubbi e le incertezze sulla fedeltà delle forze armate al sistema democratico; lo testimoniano la lentezza con la quale si sono mosse le truppe per ristabilire l'ordine, la via libera che è stata data agli uomini di Seineldin per spostarsi — come in una passeggiata, ed erano rivoltosi — da Campo de Mayo a Villa Martelli, le adesioni di molti ufficiali e di alcuni battaglioni all'azione dei ribelli, il lungo negoziato tirato avanti per chiarire problemi all'interno dell'istituzione militare più che per evitare uno spargimento di sangue. Si può dire che l'obiettivo strategico di questa terza ribellione castrense negli anni di Alfonsin fosse un attacco al governo civile, per preparare una ricomposizione del potere militare (che in questa ricomposizione ci fosse, o no, il proposito anche di un golpe immediato conta relativamente); l'obiettivo tattico era di riaffermare il principio di una profonda insoddisfazione delle caserme e di dimostrare che ogni insoddisfazione militare va gestita con l'esercizio della forza, che costituisce la sanzione della supremazia delle forze armate su un governo civile. Da quanto è accaduto in questi giorni alla periferia di Buenos Aires, pare di poter affermare che tanto l'obicttivo strategico e tanto quello tattico hanno avuto una buona dose di realizzazione. Il potere civile vince, ma vince soltanto perché il potere militare così ha deciso, dopo molti tentennamenti e un lungo patteggiamento Quando ho intervistato Alfonsin, alcune settimane fa, la sua unica risposta che apparisse incerta era quella sulle concessioni fatte ai militari, scagionati, in larga parte, dalle responsabilità degli assassinii, delle torture, e delle violenze, negli anni dell'ultima dittatura. E questo è, oggi, il nodo centrale dello scontro tra il governo e le forze armate: un riconoscimento totale e definitivo che in quegli anni tutte le azioni criminali furono in realtà -operazioni belliche» contro un nemico in guerra, la sovversione. Dietro questo riconoscimento appare evidente che si nasconda l'intento di riaffermare il principio della superiorità del potere militare, che si sottrarrebbe in tal maniera alla sovranità della Costituzione. Alfonsin è convinto che le concessioni fatte finora, e forse anche quest'ultima, perderanno ogni efficacia quando, a maggio del prossimo anno, sarà eletto un nuovo presidente civile: il valore politico, ma anche simbolico, di quest'atto annullerà definitiva¬ mente, crede Alfonsin, le illusioni e le ambizioni dei militari, e il sistema democratico sarà inattaccabile. In realtà le speranze del Presidente si stanno scontrando con una resistenza dell'apparato militare che trova radici profonde nella storia politica e nella società argentina: dopo 58 anni che i militari sono la corporazione più potente (con privilegi economici e gestioni imprenditoriali di successo) e il partito più efficiente (con capacità incontrastata di intervento nella scena politica), modificare quel costume comporta un precesso di rinnovamento che è stato ancora soltanto avviato. Perché, come mi diceva Alfonsin, 'ricordiamoci che noi la Bastiglia non l'abbiamo presa»; e voleva dire che la democrazia è arrivata in Argentina non perché ci sia stata una ribellione del popolo, ma solo perché i militari hanno voluto cedere, essi stessi, il potere dopo la sconfitta nella guerra delle Malvinc. Alfonsin ha fatto quello che ha potuto (nei primi due anni di presidenza ha mandato in pensione 51 dei 53 generali in servizio), e ha tentato un controllo politico del potere militare. Ma ha voluto evitare sempre la prova di forza, per timore di rischiare la sopravvivenza di una ancora fragile democrazia (anche questa volta ha accettato che lo Stato Maggiore si muovesse con qualche autonomia, e pare che abbia accettato di far dimettere il gen. Dante Caridi, che a dire dei militari non sosterrebbe con spirito adeguato le rivendicazioni della casta di fronte alle «intromissioni» dei borghesi). La società lo segue incerta, dubbiosa; i tentennamenti di Alfonsin hanno scoraggiato molti, e quelli che questa volta sono scesi in strada erano assai di meno di quelli che avevano occupato Plaza de Mayo durante la Settimana Santa dell'87. Mimmo Candito

Luoghi citati: Argentina, Buenos Aires, Plaza De Mayo