L'ultima sfida all'acqua alta

La deriva dei continenti simulata in laboratorio I geofisici ora possono contare su esperimenti ripetibili La deriva dei continenti simulata in laboratorio VI sono rami della scienza in cui è possibile condurre esperimenti direttamente fui materiale che si intende studiare. Così avviene ad esempio in biologia o nella fisica subnucleare, dove è possibile «isolare» le porzioni di materia che interessano e osservarne il comportamento in laboratorio. Ma in altri rami della scienza, come la geofisica o l'astrofisica, ciò è quasi del tutto impossibile, sia per l'inaccessibilità dell'oggetto di studio, sia per l'entità delle masse in gioco (non si può prendere un vulcano e portarlo in laboratorio), vuoi per la durata del fenomeni. (ad esempio, milioni di anni), vuoi infine — spesso — per l'unicità stessa dell'oggetto che si studia e l'impossibilità di sottoporlo (anche se fosse possibile) a esperimenti distruttivi o soltanto modificatoli. In questo caso, non potendo «interrogare la Natura» (cosi ebbe a definire l'esperimento Galileo), gli scienziati devono attendere che «parli da sé» e raccogliere in queste occasioni (per esempio, terremoti o eruzioni vulcaniche) la maggiore quantità di dati possibile. E' chiaro che ciò rende assai più difficile e lungo il processo di apprendimento di come la natura opera e quindi più lento il progresso di queste scienze. Vari tentativi sono stati compiuti negli ultimi anni di riprodurre in laboratorio, e quindi in scala ridotta, la propagazione di fratture in campioni di roccia (processo che simula la sorgente dei terremoti), le colate di lava (con materiali dal comportamento simile) e addirittura i vulcani. Uno degli ostacoli maggiori che si incontra nella simulazione dei processi geofisici è costituito dal tempo: come riprodurre in laboratorio fenomeni che durano centinaia, migliala o milioni di anni? La velocità media dei movimenti che avvengono all'interno del mantello terrestre, e sono all'origine di tutte le trasformazioni che osserviamo in superficie, dallo spostamento delle grandi placche che sorreggono i continenti al sollevamento delle catene montuose, è infatti di appena qualche centimetro all'anno. E inoltre, che cosa garantisce che un modello a scala ridotta riproduca in modo corretto ciò che nella realtà avviene su dimensioni di centinaia o migliaia di chilometri? La risposta a queste domande viene dal teorema della similitudine dinamica, ben noto nella meccanica dei fluidi. Esso è applicabile alla Terra perché, se consideriamo tempi abbastanza lunghi, i materiali che costituiscono il nostro pianeta, comprese le rocce che vediamo in superficie, si comportano proprio come fluidi, anche se molto viscosi. Secondo tale teorema; le equazioni che governano il movimento di un fluido possono essere scritte raggruppando le grandezze fisiche che lo caratterizzano (come densità, viscosità, dimensioni, eccetera) in certe combinazioni, dette «numeri dinamici». Un modello costruito in laboratorio è «dinamicamente simile» al sistema fisico che si vuole studiare (ad esempio un continente) se, oltre ad essere geometricamente simile ad esso, è caratterizzato in ogni suo punto dagli stessi valori dei numeri dinamici che caratterizzano i punti corrispondenti del sistema a grande 'scala. Dunque non è necessario che il modello abbia le stesse dimensioni e gli stessi valori di densità o viscosità del sistema in studio, né che sia soggetto alle stesse pressioni o alla stessa gravità. Solo la combinazione di queste grandezze, che compare nei numeri dinamici, deve avere lo stesso valore. Poiché i numeri dinamici contengono anche la velocità dei processi (e quindi il fattore tempo), possiamo allora aumentare la velocità dei processi che avvengono' in laboratorio, per poter concludere gli esperimenti in un tempo ragionevole (ad esempio, giorni o settimane), e nello stesso tempo modificare opportunamente le altre proprietà fisiche dei materiali che costituiscono il modello (usando materiali diversi da quelli del sistema da studiare), in modo tale che i numeri dinamici rimangano esattamente gli stessi. Con pochi calcoli, si trova però che ciò non è fattibile in pratica: bisognerebbe infatti usare materiali talmente «soffici» che andrebbero in pezzi semplicemente sot•to il proprio peso. Con essi non si potrebbe costruire nessun modello. Ma c'è una scappatoia: nei numeri dinamici compare anche la gravità. Se potessimo aumentare l'accelerazione di gravità di alcune centinaia o migliaia di volte, potremmo riportare la resistenza dei materiali a valori accettabili, pur mantenendo «veloci» i processi in laboratorio. E' possibile simulare un aumento della gravità mettendo il modello in una centrifuga, con la «verticale» del modello nella direzione del braccio della centrifuga. Maggiore è la velocità di rotazione del braccio, maggiore è l'accelerazione verso l'esterno, cioè la «gravità», cui il modello è sottoposto. Il pioniere di questi studi è stato lo svedese Hans Ramberg, cui oggi è intitolato il Laboratorio di Tettonica dell'Università di Uppsala. Usando una centrifuga che aumentava fino a 4000 volte la gravità che agisce sui modelli, ha compiuto importanti ricerche sul moto di convezione che avviene nel mantello terrestre e sull'evoluzione di numerose strutture geologiche. Negli ultimi anni, la tecnica della centrifuga ha raggiunto un elevato grado di sofisticazione: ad esempio, è possibile sottoporre i modelli anche a forze «orizzontali», cioè perpendicolari al braccio rotante, e simulare cosi una classe più ampia di processi geodinamici. i i Michele Dragoni C BRACCIO ROTANTE Schema di una centrifuga per esperimenti di geodinamica

Persone citate: Hans Ramberg, Michele Dragoni