Argentina, democrazia ostaggio di Mimmo CanditoPaolo Patruno

Argentina, democrazia ostaggio PERCHE' A BUENOS AIRES TORNA LA NOSTALGIA DI PERON Argentina, democrazia ostaggio Sconfìtti in guerra, i generali hanno ceduto il comando, ma non ancora il potere - Formano una casta esclusiva separata dalla società: hanno i loro quartieri, con scuole, chiesa, boutique, parco, perfino il supermercato riservati • Dal carcere dorato, dove hanno l'attendente e giocano a tennis, i condannati per stragi e torture scrivono articoli di fuoco contro Alfonsin - Il perìcolo di golpe continuo • Una libertà senza Bastiglia DAL NOSTRO INVIATO BUENOS AIRES — In tribunale, qualche giorno fa il generale Galtieri, comandante sconfitto della guerra delle Malvine, ha proclamato di essere tuttora in attesa che gli eserciti dì questo Paese gli rendano una parata d'onore. Ero in quella sala, e il vecchio uomo d'armi parlava con voce solenne, commosso, come chi creda davvero di aver subito un grave torto. L'attesa di Galtieri andrà delusa, ma certamente il potere militare rimane il telone di fondo sul quale ancora oggi si recita la storia della democrazìa argentina, assediata dai fantasmi peronisti. Mi dice Horacìo Verbitsky; il più attento studioso dei rapporti tra società civile e forze armate: «La politica delle concessioni conduce solo alla necessità di altre concessioni». Da una parte sta l'Argentina della gente qualsiasi, quella degli uomini sema qualità e senza destino di eroi, dall'altra stanno i militari. Tra i due mondi quasi non c'è rapporto; e dovunque, a Buenos Aires ma anche nel Nord lontano, a Salta per esempio, o giù nel freddo luminoso di Ushuaia, i militari hanno un quartiere che è tutto loro, con le loro scuole, la chiesa per le loro preghiere, i negozi delle loro signore, il supermercato dei loro sabati liberi, il parco per i giochi. Al tempo della guerra delle Malvinas avevo conosciuto un capitano dell'aviazione, si chiamava Paco. Una volta m'aveva portato anche in questo quartiere riservato della gente in armi, e mi aveva presentato la sua signora, una ragazza dolce e triste. Quando la guerra è finita Paco si è dimesso: aveva paura del passato. In questi anni, ogni volta che tornavo a Buenos Aires- l'ho sempre rivisto, e continuava ad avere buone informazioni sugli umori dei militari. In questi giorni l'ho cercato più volte, ma Paco non si è fatto trovare; la moglie triste dice che è via, che non sa quando tornerà. Sono convinto che siano storie. Avevo conosciuto anche un altissimo generale, che ha contato molto nella storia di questo Paese; anche lui era utile a capire gli umori e i malumori delle caserme, sapeva molto e qualcosa raccontava. Neanche lui ora ha voluto incontrarmi. Sono i segni del malessere. Non bastano per una rivolta, ma ci sono. Qttando il colonnello Rico si ribellò, nella Pasqua dell'anno passato, il golpe si chiamò Operadon Dignidad; il golpe fu battuto in qualche modo. Ma in realtà il golpe continua Domenica scorsa Rico ha dato un'intervista dalla galera, nella lontana provincia di Rio Negro, e il giornale che l fui pubblicata è stato esaurito in poche ore. Per recuperarlo son dovuto risalire fino al distributore. Ne aveva uno soltanto, me l'ha prestato per una fotocopia Ho portato il giornale in un ufficietto. La signora che trafficava con la macchina, una donnina bionda e tutta occhiali, gentile, sculettante, mi ha detto di conoscerlo bene, quell'articolo, e che una processione di gente era venuta da lei in questi giorni con quelle due pagine in mano: «Me ne sono fatta una copia anche per me e l'ho letta a casa: ha ragione, Rico». Lei è contro i golpe, e dei desaparecidos non aveva saputo nulla e ora le dispiace molto; ma Rico resta ugualmente uno che ha ragione. Questo è davvero uno strano Paese, dove i generali che sono stati condannati per lutti i morti di quegli anni feroci ora se ne stanno in una prigione dorata con l'attendente che gli lustra le scarpe mentre loro giocano a tennis. Dove un assassino feroce come Camps, che fu capo della polizia e si gloriava d'aver fatto morire «almeno cinquemila sovversivi», ora che è condannato all'ergastolo si può prendere il lusso di scrivere ogni sabato un lungo editoriale sulla Prensa, che è uno dei giornali più diffusi; e l'ultimo, la settimana scorsa, aveva per titolo n peggiore presidente dell'Argentina, e naturalmente attaccava Alfonsin. Un Paese dove, anche, Rico, cioè l'autore di una ribellione che ha fatto tremare il sistema, in carcere riceve militari e civili, e giudica pubblicamente il governo, il presidente, i suoi generali, la democrazia difficile di questi giorni. E la signora con gli occhiali alla fine dice convinta «Ma lui ha ragione». Impunità Quando Alfonsin fu eletto, nel novembre dell'83, mise subito sotto processo le Giunte militari che avevano retto l'Argentina dal 76 all'82. Il suo progetto poggiava sulla convinzione che le forze armate sapessero ripulire dall'interno la macchia imbarazzante della dittatura, e nel giro di pochi mesi il problema militare sarebbe apparso risolto senza che una società ancora incerta e timorosa osasse chiedere una severità meno compromessa. La scelta del Presidente non era la più avanzata, sul piano dei diritti e della legittimità democratica; ma, come mi diceva ancora l'altro giorno Alfonsin, «ricordiamoci che noi la Bastiglia non l'abbiamo conquistata». Voleva dire che la de mocrazia in Argentina è arrivata solo perché i generali sono stati sconfitti in guerra e hanno dovuto cedere il comando, non per una rivolta popolare: e quindi i rapporti di forza restano, sostanzialmente, quelli di prima Alfonsin non aveva fatto i conti, però, con la presunzione e l'astrattezza di questo mondo militare, convinto di una propria intoccabile im- punita. I militari si rifiutarono di giudicare i militari, e alla fine il Presidente dovette accettare che la causa passasse ai tribunali civili. Lo fece con molta reticenza, ma gli andò bene. R Nunca Mas della Commissione Sàbato, le 350 pagine ette raccontavano la morte e la tortura di 9 mila persone senza più storia, era andato diventando un bestseller venduto a pacchi nelle edicole; e l'Argentina cominciava a prendere coscienza dell'orrore della propria complicità. Quando il tribunale emise la condanna, un pomeriggio di settembre di tre anni fa, l'aria in quell'aula silenziosa e semibuia si era Tarefatta: i pochi ch'eravamo lì, \ testimoni agghiacciati di un inferno appena svelato, trattenevamo il fiato, senza nemmeno accorgercene, e si sentivano i singhiozzi di una donna che piangeva senza rumore. Alla fine della lettura del verdetto piangevano tutti; finiva un'epoca, o almeno così si credeva I generali se ne xiscirono dall'aula tra grida tempestose, solo Videla si girò a guardare il pubblico, ed aveva una faccia dì pietra grigia. Le torture Videla sapeva che i conti non si chiudevano affatto. Le pressioni delle Madri di Maggio e della Commissione dei diritti civili spingevano per una giustizia che arrivasse fino ai responsabili diretti degli omicidi, degli stupri, delle torture; le forze armate premevano per un colpo di spugna definitivo sul passato, senza nessun altro processo. Ci furono rumori di golpe e tintinnii di sciabole, e molte bombe piazzate per far paura al Paese; una fu trovala a pochi metri da un palco dove Alfonsin doveva parlare, nell'interno di una caserma di Cordova Finì che i rapporti di forze sono quelli che abbiamo già detto, e Alfonsin fece approvare una legge di punto finale: chi non veniva accusato entro sessanta giorni non avrebbe potuto essere mai più accusato. Ci si aspettava una trentina di imputazioni, ma ì giudici — che avevano molto da farsi perdonare per i loro silenzi e i loro cedimenti alla dittatura — lavorarono giorno e notte e montarono più di 600 cause. Si ritrovarono imputati non solo ì vecchi generali, ma anche colonnelli, maggiori, capitani, perfino qualche tenente: e il golpe arrivò. Era il golpe degli ufficiali giovani, naturalmente, e il colonnello Rico se ne faceva portavoce. Mentre le campane suonavano la Pasqua la gente scese in piazza, e Alfonsin andò a parlamentare, lui, di persona Fu un gran gesto, ma era anche il segno di una doppia debolezza: quella di Rico, che invece di marciare sulla Casa Rosada si era trincerato a Campo di Maggio; e quella del Presidente, che andava a barattare coi rivoltosi quando capì che i militari non avrebbero mai sparato sui militari. Il risultato di questa equazione di impotenze è stata, alcuni mesi fa, la legge dell'obbedienza gerarchica, che ha liberato «per aver agito in base ad ordini superiori» tutti gli imputati di ogni atrocità. La Grande Pulizia era terminata Il tempo dell'oblio arrivava a comando, e prima ancora che la coscienza della società abbia saputo assumerne il diritto. Restano sotto processo una quindicina di generali, ma anche loro chiedono ora che gli venga applicata quest'ultima benevolenza di legge. E nell'intervista Rico parla dell'amnistia, la chiede, spiega come la democrazia sia stata salvata dalla «guerra combattuta contro i sovversivi». Intende dire i 30 mila desaparecidos, le migliaia di torturati, le donne stuprate, i saccheggi a man bassa. Ora questa rivendicazione la chiama Operación Dignidad. Credo proprio che abbia ragione Verbitsky, quando dice che le concessioni non finiscono mai. Quello che i militari vogliono oggi è che l'Argentina riconosca la legittimità della loro 'guerra», perché nella guerra il diritto non c'entra, si ammazza come si può: ma l'Occidente e la fede di Cristo vennero liberati dalla minaccia della sovversione. Giovedì pomeriggio sono andato in Piazza di Maggio a incontrare le Madri; loro continuano a sfilare attorno all'obelisco, di fronte alla Casa Rosada, in silenzio, sempre con in testa i loro foulard bianchi che mostrano le foto dei figli desaparecidos. Era una bella giornata di sole, eia Bastiglia non l'aveva ancora assaltata nessuno. Mimmo Candito (A pag. 14: Attonsin a Roma dice no all'Alitalia di Paolo Patruno). p

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