Pierre Salinger: «I miei mille giorni con il Presidente»

Pierre Salinger: «I miei mille giorni con il Presidente» Pierre Salinger: «I miei mille giorni con il Presidente» A 25 anni dall'assassinio di John Kennedy, il 22 novembre 1963, pubblichiamo un intervento dì Pierre Salinger, ex capo ufficio stampa della Casa Bianca, sugli anni trascorsi con il Presidente. Sono rimasto a lungo in silenzio dinanzi al montare d'una campagna che vuole denigrare e persino distruggere l'immagine di John Fitzgerald Kennedy. E' stato descritto in tutte le gradazioni che vanno dal pericoloso incompetente al maniaco sessuale. Penso che sia giunto il momento di mettere le cose a posto. Kennedy era un essere umano, non re Artù. La sua Amministrazione non era il castello di Camelot. Lo divenne solo dopo la sua morte, sullo sfondo di quelle maledette pallottole che seppellirono un uòmo eccezionale. Meno di una settimana dopo la sua morte, la moglie Jackie ricordò i versi di una canzone che lui amava: «Non lasciamo si dimentichi che un tempo c'è stalo un luogo noto per un unico, breve, scintillante attimo come Camelot». «E non tornerà mai più così» disse Jackie. Camelot era una parola perfetta per un sogno andato in pezzi. Ma 25 anni dopo quel sogno è finito davvero a pezzi? John Fitzgerald Kennedy è morto, però il ricordo che ha lasciato gli fa rispondere ancora intorno- un'aura particolare, non solo negli Stati Uniti ma in tutto il mondo. E la gente sta cominciando sempre più a riflettere quanto sarebbe diverso il mondo oggi se lui non fosse morto. Il successo di John Kennedy, al momento della sua morte — nel novembre '63 — non era un qualcosa che si potesse descrivere semplicemente con i fatti. I presidenti americani sono, in virtù della loro carica, gli uomini più potenti del mondo. Kennedy, all'epoca, era anche l'uomo più popolare del mondo e verosimilmente l'uomo più popola re di tutta la storia. Non solo aveva scosso i suoi connazionali dal loro torpore post-bel lieo; era sembrato evocare ovunque la visione di come il genere umano poteva c doveva essere. La sua eterna ab bronzatura, quegli occhi grigi cosi espressivi e un volto irresistibile irradiavano promesse. Era un uomo di grande eleganza e nello stesso tempo alla mano. Trasmetteva, soprattutto, l'incrollabile con vinzione nella capacità del genere umano di determinare la sua sorte. Il mio primo contatto con John Fitzgcm'd Kennedy lo ebbi nel 1956. Alla Convention democratica di Chicago, che coprivo come reporter del periodico Collier's, gli venne strappata la designazione alla vicepresidenza, che toccò al senatore del Tennessee Estcs Kefauvcr. Il discorso che Kennedy pronunciò dopo avere perso la nomina fu brillante: stavo ascoltando un giovane lucido e intelligente che sarebbe divenuto il mio candidato alla Presidenza nel 1960. Proprio non sapevo, allora, che avrei lavorato anche per lui. Ma meno di otto mesi dopo, quando Collier's cessò le pubblicazioni, venni assunto da suo fratello, Robert Kennedy, per la commissione ristretta del Senato che indagava sul racket delle braccia. Alla prima audizione pubblica, nel 1957, sedevo dietro Bobby, in attesa del primo testimone, un uomo alto seduto vicino a lui. «Pierre, questo è mio fratello Jack» disse Bob. Strinsi la mano a John Kennedy. Nel corso dei successivi due anni e mezzo, fui sempre più impressionato da lui. Degli otto senatori presenti nel comitato, soltanto due sembravano essersi preparati bene, giungendo alle audizioni con una perfetta conoscenza della materia: John Kennedy e Barry Goldwater. Così, nel settembre 1959, quando John Kennedy mi chiamò nel suo ufficio e mi disse: «Pierre, ho intenzione di correre per la Pre■ stilema, l'anno prossimo: ti voglio nella mia campagna», non ebbi un attimo di esitazione. «Senatore, lei si è guadagnato un uomo». Che contrasto fra le elezioni del 1960 e quelle di oggi. Il giorno in cui Kennedy iniziò la sua campagna nel New Hampshire — era il gennaio del 1960 — aveva a disposizione appena una ventina di reporter. La televisione non era una forza dominante. C'erano solo 16 primarie da vincere: nessun caucus nello Iowa, nessun super-martedì. Le elezioni diedero alla nazione l'immagine di un politico del Nord-Est che, viaggiando in lungo e in largo per il Paese durante la campagna, stava imparando che cos'era l'America. Kennedy vinse con un esile margine di 100 mila voti, ma il suo discorso d'inve¬ stitura galvanizzò la nazione. Gli Stati Uniti si ritrovavano improvvisamente con un giovane leader dalla splendida moglie e con due bambini piccoli (la figlia, Caroline, e il figlio John, nato subito dopo l'elezione). Guardo ancora indietro, con nostalgia e ammirazione, a quei giorni alla Casa Bianca. Kennedy era un uomo molto particolare. Innanzi tutto, a differenza di molti presidenti, era circondato da uno staff di giovani uomini e donne che fin dall'inizio lottavano per la sua stessa visione dell'America. Non c'erano ostacoli per oltrepassare la porta del Presidente. Chiunque, fra le decine di collaboratori, poteva vederlo quando voleva. Non avevano bisogno di lasciapassare da parte del capo della segreteria. Secondo, gli uomini del suo staff credevano l'uno nell'altro e non c'era mai un conflitto interno alla Casa Bianca. La prova: quando Kennedy morì, i suoi collaboratori erano gli stessi che a inizio mandato. Nella Casa Bianca si viveva un'atmosfera rilassata. Il Presidente amava impegnare i membri del suo staff in conversazioni futili prima di andar giù con argomenti seri. Spesso gironzolava per la Casa Bianca, afferrando le riviste o i libri che voleva leggere. A fine giornata, lo staff se ne andava a casa e anche Kennedy se ne andava a casa, circondato dalla famiglia e dagli amici più stretti che spesso invitava a cena e qualche volta per un film senza fare troppo tardi. Kennedy ha sempre ritenuto di dover mantenere due vite nettamente separate. C'erano i suoi obblighi presidenziali. C'era la sua famiglia e la vita privata. Lui e Jackie si amavano di un amore senza nubi, e John Kennedy era molto affezionato ai loro bambini. Per Jackie, il peggior aspetto della vita alla Casa Bianca era l'attenzione della stampa verso i figli. Voleva che i suoi bambini giocassero in cortile, come tutti gli altri. Il problema, naturalmente, era che il cortile fosse il South Lawn, il prato a Sud della Casa Bianca. Conservo mucchi di lettere in cui si rivolgeva a me nella carica di capo ufficio stampa, lagnandosi amaramente per quella che riteneva nff e nLa rì, gli a e i nnri. aire. ne nrgli nta la mia incapacità di tenere la stampa lontana dai bambini. «Pensavo che lei si fosse accordato con i fotografi perché non riprendessero i bambini mentre giocano alla Casa Bianca. Hanno avuto tutte le foto di Macaroni (il pony di Caroline) che volevano. Non chiedo di più: se lei avrà polso e agirà a tempo può fermarli La prego, lo faccia». Il Presidente era solito arrivare allo Studio Ovale di buon'ora, generalmente accompagnato da Caroline e John. Trascorrevano alcuni minuti con lui prima di uscire per andare a scuola, la scuola che Jackie aveva organizzato nella Casa Bianca. Vedeva inoltre i bambini all'ora della colazione e prima che andassero a Ietto. Kennedy lasciava l'ufficio intorno alle 13 e si dirigeva verso la piscina costruita per Franklin Delano Roosevelt. Nei primi tempi dell'Amministrazione, Joseph Kennedy, il padre di John, commissionò un murale per le pareti della piscina all'artista francese Bernard Lamotte. L'affresco riproduceva il porto di St. Croix nelle Isole Vergini. Il sistema d'illuminazione permetteva al Presidente di nuotare in un ambiente che poteva riprodurre la luce di mezzogiorno o la notte fonda, con luna e stelle lucenti. Quanto al suo lavoro, sin dall'inizio Kennedy ebbe un problema. Lo stretto margine con cui aveva vinto non gli aveva conferito quel tipo di sostegno popolare di cui aveva bisogno. Kennedy lo capi- va. La sua decisione di accettare dalla precedente Amministrazione l'operazione Baia dei Porci finì per essere un rovinoso errore. Kennedy non era un uomo perfetto. Era un essere umano, non un mito. Nonostante l'elevatezza dei suoi principi non si prendeva così sul serio. Capiva di essere un essere umano, alle prese con problemi umani, e che avrebbe fatto degli errori. E li fece. Ma era un uomo che imparava dai propri errori, che non li commetteva due volte. Quel che rendeva Kennedy speciale era la coscienza delle proprie responsabilità. Credeva nel suo dovere di condurre gli Stati Uniti verso un futuro di successi. Un primo esempio: Kennedy comprese che il lancio, nel 1957, dello Sputnik sovietico, il primo satellite artificiale ad andare in orbita intorno alla Terra, costituiva una minaccia diretta agli Stati Uniti. Questa la ragione per cui mise in moto un grande programma spaziale con l'obiettivo di portare degli americani sulla Luna per la fine degli Anni 60. Nel 1969 il suo obiettivo era raggiunto. Purtroppo non era lì a vederlo. Le sue relazioni con l'Unione Sovietica sono un altro affascinante esempio. Durante il duro summit di Vienna con il presidente sovietico Nikita Kruscev, i due leader cominciarono una straordinaria corrispondenza privata. La prima lettera di Kruscev mi hi consegnata all'Hotel Carlylc di New York nel settembre 1961, e le lettere continuarono fino alla morte di Kennedy. Probabilmente dopo il venticinquesimo anniversario della sua morte verranno rese pubbliche. Avendone letto la maggior parte, credo riveleranno, con molte sorprese, due leader di potenze che si confrontavano muovendosi verso una reciproca comprensione. E infatti questa comprensione stava cominciando a dare i suoi frutti prima del 22 novembre 1963. Il discorso di Kennedy all'American University nel giugno di quell'anno — «Noi faremo la nostra parte» disse «per costruire un mondo di pace dove i deboli sono sicuri ed i forti giusti» — segnò l'inizio della fine della guerra fredda. Se si considera che avvenne solo sette mesi dopo la crisi dei missili di Cuba, il più pericoloso confronto tra gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica dal termine della seconda guerra gondiale, mostrava che questo dialogo privato stava dando dei risultati. Solo due mesi più tardi gli Usa e l'Unione Sovietica firmavano il Test Ban Agreement (l'accordo per la messa al bando degli esperimenti atomici). La morte di Kennedy interruppe certamente il progresso delle relazioni russo-americane, che ripresero seriamente solo sotto la Presidenza Nixon. C'erano problemi in Vietnam ed in Medio Oriente. C'era un grande sforzo per aiutare i meno privilegiati in America Latina. C'erano i complicati problemi di Difesa in Europa con cui Kennedy si stava confrontando. Che cosa sarebbe accaduto se fosse vissuto? Non si possono fare ipotesi sulle future decisioni presidenziali di un uomo che è morto. Ma credo davvero che le relazioni fra Usa e Urss sarebbero migliorate in un periodo nel quale un tale cambiamento avrebbe avuto un significato vitale. Sono anche convinto che avremmo normalizzato le relazioni con Cuba e liberato il Paese caraibico dalla morsa d'acciaio di Mosca. E poi Kennedy era fermamente contrario al fatto che gli Stati Uniti diventassero la forza militare più importante in Vietnam, non penso quindi che vi avremmo inviato 500 mila americani. Ho visto Kennedy per l'ultima volta il 19 novembre 1963. Stavo partendo per Tokyo con sei membri dello staff per una conferenza economica. Proprio quella mattina avevo ricevuto da Dallas la lettera di una donna che mi chiedeva di convincere il Presidente a non compiere quella visita. «Ho il presentimento che sia pericoloso», mi aveva scritto. Accennai di questa lettera a Kennedy, lui ne sorrise: «Lo sai, chiunque può uccidere un Presidente se ha voglia di suicidarsi». Ci stringemmo la mano e me ne andai. Tre giorni più tardi, dopo un incontro alle Hawaii con alcuni generali americani per discutere la situazione in Vietnam, partimmo per Tokyo. Dopo due ore e mezzo di volo fui chiamato nella cabina di comando dove il Segretario di Stato, Dean Rusk, e altri cinque esponenti del governo eranoseduti intorno ad un tavolo con le facce severe. «Hanno sparato a Kennedy — disse Rusk —: chiama Washington». Pochi secondi dopo parlavo con Washington. La confusione era totale, nessuno sapeva che cosa stesse accadendo. Rusk ordinò di atterrare, invertire la rotta e tornare verso Honolulu. Passavano i minuti, minuti gravi. E poi sentii una voce: «Wayside (il mio nome in codice), stai in ascolto». Ogni 30 secondi, per alcuni minuti fu ripetuto lo stesso messaggio. E alla fine sentii il messaggio decisivo: «Wayside, Lancer è morto». Era appena finita una fase straordinaria della storia americana. Pierre Salinger Copyright «Los Angeles Times» e per l'Italia «La Stampa» - Washington. Kennedy con i figli Caroline e John j r. che ballano nel suo ufficio alla Casa Bianca