Le caldarroste con i consigli del Seicento di Sandro Doglio

Le caldarroste con i consigli del Seicento casa in campagna Le caldarroste con i consigli del Seicento CI è capitato di passare qualche tempo in casa, e siamo stati tra vecchi libri, a leggere spesso storcendoci gli occhi tra caratte' ri inusuali e pieni di grazie ormai dimenticate; a compulsare dizionari dotti per scoprire il significato di pa' role desuete, che spesso bisogna indovinare più che capire. La saggezza, si dice, viene dai vecchi. Se è così, eccoci più saggi di ieri. O, per lo meno, con un piccolo ulteriore bagaglio di conoscenze che ci sembra curioso trasmettere ai gentiluomini e alle gentildonne di campagna, che sanno far tesoro delle piccole cose del passato. E' tempo questo di casta« gne. Una ricetta antica per cuocerle la copiamo da un librettino inviatoci dagli amici del ristorante Lancellotti di Soliera Modenese, gente ì che ha passioni profonde e cultura antica, al punto da • promuovere la stampa di un 'Brieve racconto di tutte le radici, di tutte le erbe, e di tutti i frutti che crudi o cotti in Italia si mangiano'. E' un manoscritto del • 1614. opera del modenese Giacomo Castelvetro, che si trova al Trinlty College di ' Cambridge. Il Castelvetro visse a lungo in esilio a Lonr* dra perché condannato dall'Inquisizione come protestante. Scrive il Castelvetro: «... in questo tempo abbiam noi le castagne, le quali, volendole mangiare, a diverse maniere si cuocono, se bene ancora crude se ne mangi; ma i più, cocendole, le arrostiscono, poste in una padella pertugiata sopra la vampa del fuoco, o sotto le calde ceneri, e con sale e con pepe le mangiamo; e invece del zucchero, che qui (in Inghilterra, Ndr) usano, noi usiamo il succo d'aranzì. E alcuni, anzi i più,... bevutovl un poco dietro, ognuno a dormire si va; et elle ricchieggono il vino nuovo dolce». Se evidentemente gli piacevano le caldarroste, Castelvetro disprezzava invece le castagne lesse: «Se ne cuociono poi in acqua sola, e queste chiamansi lesse, le quali vengono più da fanciulli e dalla bassa plebe, che dagli uomini civili e maturi, mangiate». Nello stesso libretto, Castelvetro ricorda le Cipolle cotte in insalata: «Cotte sotto le ceneri calde, overo in acqua, ma alla prima maniera cotte sono vie più saporite e più sane, e seco usiamo il pepe franto». Le stesse cipolle, scriveva il modenese in esilio, «per iscacciar la tosse procedente da rafreddamento sono rare; ma senza pepe». Sarebbe tempo questo, anche di mostarda (ma chi se la fa ancora? ). Da un celeberrimo libro di cucina — il 'Libro novo» di Christofaro di Messisbugo, sovraintendente alla Corte di Ferrara, pubblicato nel 1557 — ecco comunque quella che forse è la più antica ricetta di mostarda: «Piglia libra una dì Zuccaro chiarificato, di Cannella pesta fina oncia una, di gengevro (zenzero) oncia una, di Garofani (chiodi, evidentemente) oncia meza, di Seneva (senape) pesta oncia sei; e mescola insieme, e passa per lo setazzo, overo macina ogni cosa insieme con una macinella, e sera perfettissima, e non la volendo il Zuccaro 11 porrai del Mele (miele): I fiori azzurri di zafferano son fioriti nell'orto, e con infinita pazienza tutti noi ne abbiamo raccolto e messo a seccare gli stami rossi, preziosa droga culinaria. Ma oltre al risotto alla milanese, o per condire qualche pesce, ì come utilizzare questo zafferano? Lo stesso Christofaro di Messisbugo ci viene in aiuto, suggerendo un insolito Sapore giallo: «Piglia la mollena (mollica) d'un pane bianco, e mettila ammoglio in Vino bianco ben dolce, e aceto forte per la metà del Vino, e mettile a bogliere (bollire) con once sei di Mele (miele) biancho ben purgato, e poi passala per la stamegna (setaccio, 'Cinese- ) con Cannella pesta fina, e tanto zafferano ch'ei faccia ben giallo, e sera fatto». E' un «sapore» che evidentemente può essere utilizzato in varie zuppe o pietanze. Un tempo, con i marrons glacés venivano anche offerte le violette candite. Oggi, che sappiamo, a far vere violette candite è rimasta soltanto l'Agrimontana di Cesare Bardini, un'azienda di Borgo San Dalmazzo (che è la stessa, poi, che candisce marroni per quasi tutta Italia e per l'estero): ma le violette vere sono rarissime, e molto care (si parla di seisettecentomila lire al chilo: più di mille lire l'una). Nel passato, tuttavia, oltre alle violette si candivano altri fiori, per esempio i profumatissimi fiori di limone. Ecco la ricetta dei «Fiori di Citrone alla pralina-, lasciata nel 1787 da Lorenzo Pormi, notaio e fattore del conte Roero di Guarene, in un manoscritto che oggi si trova alla biblioteca civica di Guarene, e che è stato riprodotto e diffuso da una simpatica «Confraternita del Bollito di Guarene e Castagnito»: -Si prende le fiori, si placano (si distendono, cioè), si fa cuocere il zuccaro, si tira alla gran piuma (cioè quando fondendolo raggiunge i 107 gradi, e prendendone un po' tra le dita si forma un piccolo nastro resistente: i francesi dicono gran perle), si mettono le fiori, si lasciano bollire sinché sieno alla moderna (stessa) cottura, si levano dal fuoco, si lasciano colare d'un setaccio; ogni libbra di zuccaro, once sei di fiori», cioè 185 grammi di fiori di limone per 370 grammi di zucchero. E' vecchio — e sempre tema di polemiche — il discorso se la luna abbia o no influenza sui lavori di campagna, sulle semine, sul vino. Pietro Ligari, pittore valtellinese di valore (1686-1752) che un bel giorno si ritirò nella sua Sondrio e si dedicò all'agricoltura, ha lasciato dei 'Ragionamenti d: agricoltura' — ripubblicati in bella edizione dalla Banca Popolare di Sondrio — in cui aveva una sua opinione appunto sulla luna. Dice: «Alcuni osservano la luna nel podare (cioè potare) le viti, li moroni ed altre piante, ma io dico che la luna non influisce nella pianta che resta podata, ma solo nel legname che con taglio si leva, e però volendossi tagliare legnami da salvare per opera (cioè per costruzione), overo per legna per fuoco si dovrà prendere il fine di luna, overo l'interlunio». Ligari continua: -La legna per fuoco sarà meglio tagliarla di maggio e quella da opera in novembre, nella luna sopraiennata. Il salice podato dopo due giorni o tre di plenilunio fatto, darà le salezze di miglior dolcezza e durata, le quali tagliate avanti il plenilunio presto si tarmano e si consumano». Abbiamo controllato. Il nostro amico Vito, monferrino che nulla sa del pittore Ligari né delle usanze della lontana Valtellina, segue gli stessi criteri, sia per la potatura che per tagliare la legna o far salici per legare le viti. Sorprendente, no? Sandro Doglio Alla riscoperta di antichi libri prodighi di ricette di cucina e tecniche agricole Alla riscoperta di antichi libri prodighi di ricette di cucina e tecniche agricole

Persone citate: Cannella, Cesare Bardini, Lancellotti, Ligari, Lorenzo Pormi, Mele, Pietro Ligari