La trincea perduta di Walesa
La trincea perduta di Walesa I cantieri di Danzica, culla e simbolo di Solidarnosc La trincea perduta di Walesa Fino al 70 sono stati il fiore all'occhiello della propaganda del regime - La rivolta del '56 alla notizia dell'ennesimo aumento dei prezzi - Sui 12 mila dipendenti una normalizzazione a colpi di licenziamenti Fino al dicembre 1970 i cantieri navali Lenin di Danzica erano stati il simbolo dell'industria postbellica polacca, un fiore all'occhiello ostentato con orgoglio dal regime comunista, fiero della propria efficienza marxista ricostruita a tempi di primato sulle rovine della guerra. Tutto quanto succèdeva sulle rive del Baltico, dal nome glorioso che campeggiava a scritte cubitali sul gigantesco complesso alla dedizione stachanovista dei 20 mila dipendenti, doveva esaltare l'esempioda additare alla classe operaia del Paese; intanto i giornali di partito facevano a gara nel rovesciare colonne di lodi sullo spirito di sacrificio dei suoi lavoratori ed il settimanale Polìtyka, allora diretto dall'attuale primo ministro Mieczyslaw RakowsW, descriveva con accenni ammirati le promozioni sul campo di manager che si battevano per introdurre ritmi di gestione di puro stile occidentale. Dai bacini di Danzica, a volte addirittura in anticipo sulle date di consegna, uscivano navi modello, si chiamavano «Unità operaia», «Squadra Makowski», erano intitolate alle parole d'ordine coniate dalla cellula della Gioventù socialista, appena il cinque per cento delle maestranze ma forte abbastanza per soffocare qualsiasi mugugno. Da tre anni Lech Walesa, appena uscito dall'istituto tecnico di Lipno, vi timbrava il cartellino, matricola 61878, mansione elettricista, e non gli ci volle molto per capire che sotto la patina apparente di un modello creato dalla propaganda si nascondevano ingiustizie palesi. C'era ad esempio lo Yacht club, aperto tuttavia soltanto a chi vantava maggiore anzianità, gli iscritti al Puop avevano la precedenza nell'assegnazione di alloggi, potevano fare la spesa in spacci privilegiati, l'acquisto di macchinari destinati a facilitare i compiti delle squadre di montaggio sfociava immancabilmente in riduzioni di personale. Peggio ancora, la declamata efficienza era nient'altro che un mito patinato, mancavano utensili validi. In questa realtà sociale, a lungo ignorata dall'ufficialità che preferiva tamponare le falle con rimedi di facciata, è nata la collera operaia che negli anni a venire si sarebbe trasformata nella creazione di Solidarnosc e nella contestazione popolare a livello nazionale. Come nel .1956, all'epoca di Gomulka, fu il caro-pane ad accendere la miccia della rivol¬ ta. Quando, a ridosso delle feste natalizie, il governo decretò l'ennesimo aumento dei generi alimentari, i cantieristi di Danzica, imbufaliti dai bassi salari e scottati dai premi di produzione elargiti con il contagocce, decisero di scendere in sciopero. Cominciarono gli addetti alle officine meccaniche, poi l'astensione si propagò a macchia d'olio agli altri reparti, alle presse, ai gruisti, persino agli «scafisti» addestrati in Svizzera ed in Danimarca, i meglio pagati, i più coccolati dalla direzione. Nel suo libro «Un cammino di speranza» Walesa ricorda con commozione il clima incandescente di quelle settimane, racconta che «in mancanza di altri canti intonavamo l'Intemazionale», che «ci sentivamo obbligati a scendere in piazza sapendo di gridare ai muri», che 'bisognava dire basta ai soprusi ed alle false promesse: La «pacificazione» decretata da Oierek fini nel sangue con 45 morti fra i dimostranti di Danzica, Gdynia e Stettino, seguiti da massicci licenziamenti dei riottosi ed il pugno di ferro da parte della polizia. Ma siglò anche l'inizio di un processo inarrestabile, di quella presa di coscienza collettiva destinata ad esplodere dieci anni dopo nei 500 giorni del sindacato libero e nel monu¬ mento delle Tre Croci eretto all'ingresso della fabbrica a ricordo delle vittime del 1970. E, ancora una volta, furono proprio i cantieri di Danzica a capeggiare la sollevazione, ad estenderla ai contadini, ai minatori, agli studenti, agli ospedalieri, a strappare al generale Jaruzelski l'impegno del riconoscimento legale che verrà stracciato con la legge marziale del 13 dicembre 1981. E gli stessi hanno continuato ad ispirarla fino ai giorni nostri, nel maggio di quest'anno, di nuovo in agosto, sebbene con una partecipazione meno immediata e spontanea del passato. Perché rispetto all'80, le giovani generazioni si sono stancate di riconoscersi nella bandiera inalberata dal Premio Nobel, l'hanno addirittura fischiato sonoramente accusandolo di avere » svenduto il miraggio della «tavola rotonda» accettando l'incontro fra governo ed opposizione in assenza di adeguate garanzie. Adesso, l'ultimo atto della tragedia con la traumatica decisione di liquidare i cantieri. Una mossa strategica, seppure scontata nel quadro fallimentare del settore a corto di commesse su scala mondiale, che tuttavia assume valenze particolari non tanto nella volontà di cancellare il simbolo dell'intraprendenza statale, ormai naufragata nel marasma della crisi economica, quanto piuttosto nel desiderio di distruggere la culla storica di Solidarnosc. Cosa succederà dei 12 mila dipendenti rimasti sul foglio paga, saranno collocati altrove od andranno ad ingrossare le file dei senza lavoro? Certo la futura qualifica di Lech Walesa disoccupato rischia di procurare ulteriori problemi a Jaruzelsld allontanando il traguardo del consenso sociale inseguito con crescente affanno dalla Polonia. . Piero de Garzarolli ■ . ■ ■ mwm Danzica. In un'immagine del maggio scorso Walesa dinanzi ai cantieri Lenin ( Ap)
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